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Ugo Magri per "La Stampa"
Domani va in scena alla Camera il voto sul Rendiconto dello Stato, ma il copione della recita non è ancora ben chiaro. Fino a qualche giorno fa sembrava l'occasione su misura per tendere l'imboscata al Cavaliere, sommando i voti delle opposizioni a quelli degli
«scontenti».
Strada facendo è emerso che Napolitano non sarebbe entusiasta dell'argomento prescelto (sarebbe come negare la regolarità dei nostri conti pubblici), e poi alcuni dei deputati che dovrebbero impallinare Berlusconi si erano già pronunciati a favore del Rendiconto il mese scorso, quando venne bocciato: arduo immaginare che rovescino il loro voto, oltretutto su un provvedimento che di sostanziale ha molto poco. Questo significa che il Cavaliere la sfangherà di nuovo? Non è detto.
Sono in corso contatti frenetici tra i leader di centrosinistra, quelli del Terzo Polo e la «fronda» Pdl. L'idea sarebbe di prendere una posizione «a tutti comune», annuncia Bersani. Per esempio, tutti quanti astensione sul Rendiconto, in modo da renderla riconoscibile e dare la prova aritmetica che la maggioranza non è più tale, anzi se ne sta formando un'altra. Ragion per cui Berlusconi si arrenda all'evidenza, e i suoi finalmente lo mollino.
Tra i dissidenti Pdl, per il momento ha dato una pubblica disponibilità ad astenersi Antonione. Un altro firmatario della lettera che invitava Silvio al passo indietro (Stracquadanio) invece confermerà il suo voto favorevole. Voci dal quartier generale berlusconiano sostengono che sia in atto un ripensamento tra quanti erano pronti all'addio, forse perché strada facendo il grande passo si è rivelato più lungo della gamba.
Si trattasse di far dimettere Berlusconi per dar vita a una maggioranza col Terzo Polo, di dissidenti Pdl se ne troverebbero a frotte; Casini punta invece a un governo di larghe intese, e lo dice con assoluta trasparenza: «Sarebbe irresponsabile pensare a un nuovo governo emarginando quella parte che più direttamente rappresenta il mondo operaio e del sindacato», cioè il Partito democratico.
No Pd, no party. Voci incontrollate sostengono che la Bertolini non sia più così convinta a mollare il premier; idem Pittelli. Però intanto annuncia che se ne va la Carlucci, l'ex soubrette transita direttamente all'Udc. Qualcuno molto in alto nel Pdl addirittura ipotizza, come contromossa, che possa venire a votare Papa. à agli arresti domiciliari, ma un salto alla Camera tra due gendarmi forse gli verrebbe consentito... Di qui a domani sarà una giostra.
Berlusconi tempesta ai limiti dello stalking tutti quelli ancora in bilico (spuntano come funghi, l'ultimo è l'ex generale Speciale). C'è chi gli suggerisce di gettare in pasto ai «peones» lo scalpo di Tremonti, contro cui si scagliano Crosetto e, novità , Scajola. Altri come Osvaldo Napoli gli implorano di assumere un'iniziativa politica. Il premier insiste a dirsi fiducioso: «Continuo a ritenere che le defezioni possano rientrare. Siamo ancora maggioranza in Parlamento con numeri certi che abbiamo verificato con precisione in queste ore». «Sta bluffando», grida Franceschini, capogruppo Pd.
Più prudente Casini, «anche se avesse 316 voti sul Rendiconto, poi come penserebbe di andare avanti?». Già , perché «con un solo voto in più si vivacchia ma non si governa», integra il concetto Fini. Casomai domani il governo dovesse scampare all'agguato, secondo Bersani si dovrebbe ragionare su un'apposita mozione di sfiducia o qualcosa del genere, «certo non staremo fermi».
Immaginiamo invece lo scenario del crollo. Pisanu, protagonista alla convention del Terzo Polo, invoca un governo di unità nazionale. Per Berlusconi sarebbe come l'aglio per Dracula, difatti replica inorridito: «Non vedo un governo di larghe intese con un premier messo lì a dispetto degli italiani».
Ma anche se lo vedesse, non ci starebbe la Lega. Maroni esclude una partecipazione del Carroccio a soluzioni «di tregua»: «Senza maggioranza, l'unica strada sarebbero le elezioni», anche a gennaio perché «così non può durare. Le notizie di poco fa mi fanno pensare che la maggioranza non c'è più ed è inutile accanirsi». Alfano, che va di conserva col premier, invita a chiamare le cose col loro nome: «I governi tecnici sono sempre ribaltoni».
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