DAGOREPORT - MA QUALE TIMORE DI INCROCIARE DANIELA SANTANCHÈ: GIORGIA MELONI NON SI È PRESENTATA…
Elena Tebano per Corriere della Sera
«Avrei potuto vedere crescere Gaia e Nicola». È stato il primo pensiero di Maria Caprì quando ha saputo che il Tribunale dei Minori di Roma ha legalmente riconosciuto due mamme a una bimba nata all’interno di una coppia lesbica. E l’ha trafitta come un chiodo: «Non vedo i miei figli da sei anni», spiega.
Milanese, 48 anni, grafica, Maria è «una madre separata»: nel 1999 ha avuto Gaia e nel 2001 Nicola insieme all’allora compagna Francesca (i nomi dei bambini sono di fantasia). Dopo la fine del loro rapporto, Francesca, che è la madre biologica dei due ragazzi, li ha fatti scomparire dalla sua vita. «Non ho potuto farci niente: ho anche provato a rivolgermi ai giudici, ma non è servito. Per la legge io non esisto — racconta —. Se avessimo avuto la stepchild adoption , non sarebbe successo. E ora ho paura anche solo a pensarci: quando si inizia a navigare nel mare dei “se”, si rischia inesorabilmente di affogare», confessa.
La stepchild adoption («adozione del figlio del partner») permette infatti a un genitore non biologico di diventare anche genitore legale del bambino che ha cresciuto insieme al compagno o alla compagna (acquisendone la co-tutela e facendolo automaticamente diventare proprio erede). Proprio come è successo nel caso di Roma. La possono chiedere in tutta Europa (tranne Portogallo, Grecia ed ex repubbliche sovietiche) anche le coppie omosessuali. In Italia è una delle maggiori rivendicazioni del movimento gay.
«Finché va bene, va tutto bene. È quando le cose vanno male che ti rendi conto di quanto servano i diritti», riflette ad alta voce Maria. La sua è una di quelle storie che sono andate molto male. Lei e Francesca hanno desiderato tantissimo Gaia e Nicola e li hanno avuti grazie a un amico che ha donato loro il seme. «Abbiamo deciso che sarebbe stata Valeria a portare avanti le gravidanze perché lo desiderava molto — dice Maria —. Io non avevo bisogno di vivere l’esperienza fisica della maternità: per me essere genitore prescinde dalla biologia».
francesca vecchioni e alessandra con le loro gemelle
Poi nel 2003, dopo dieci anni di storia, Maria e Francesca si sono lasciate. «All’inizio abbiamo fatto una normale vita da genitori separati — racconta —: i bambini stavano da Francesca dal lunedì al venerdì e da me a fine settimana alternati. Ovviamente continuavano a chiamarmi “mamma” come avevano sempre fatto».
Con il tempo, però, i rapporti con la ex sono precipitati: «Non voleva più vedermi e quindi doveva cancellarmi dalla vita di Gaia e Nicola — dice Maria —. Me li faceva incontrare sempre più di rado, mi convocava all’ultim’ora al parco. Io correvo. Nel giro di poco è arrivato il divieto totale: non potevo neanche parlarci al telefono». Fino a diffidarla di avvicinarsi: «Me li ha messi contro».
2 francesca vecchioni e alessandra con le loro gemelle
Maria ha deciso allora di rivolgersi al tribunale, e ha chiesto l’affidamento congiunto: «Il giudice dei Minori lo ha rifiutato, spiegando che il codice civile lo prevede solo per i genitori legali. Però ha fatto qualcosa di sorprendente», ricorda Maria. Ha chiesto al magistrato di verificare come i bambini avessero vissuto la separazione e cosa fosse meglio per tutelarli.
francesca vecchioni alessandra brogno con le figlie
Maria, dopo due anni ha rivisto così i ragazzi, ormai adolescenti: davanti ai periti. E solo due volte. Nel decreto del 2009 il pm ha riscontrato che tra Maria, Francesca, Gaia e Nicola c’era «uno schema tipicamente familiare»: «E i periti hanno certificato che i bambini avevano bisogno di recuperare il rapporto con me, che eravamo una famiglia. Il giudice però non lo ha potuto “recepire”. La legge, ha scritto, non glielo permetteva».
Oggi Maria può solo aspettare: «Tra tre anni Gaia sarà maggiorenne, potrò avvicinarla. Spero di riuscire a spiegarle».
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