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“BIG” è la mostra attualmente a Miami che raccoglie le immagini del fotografo Terry O’Neill, colui che negli anni Sessanta si spinse oltre i limiti del gusto e del decoro. Sposato con Faye Dunaway, fu lui a scattare la famosa foto all’attrice la mattina dopo gli Oscar del 1977, a bordo piscina del “Beverly Hilton Hotel”.
Ha immortalato Mick Jagger, Audrey Hepburn, Frank Sinatra e Raquel Welch sulla croce. Ricorda O’Neill: «Un giorno Raquel si lamentò di essere crocifissa dalle femministe perché era un sex symbol. La accusavano di umiliare le donne indossando quel bikini nel film “One Million Years B.C.” Allora capii che era lo scatto perfetto: lei crocifissa in bikini. Alla fine non pubblicai la foto e la ritrovai nel mio archivio trent’anni dopo. Anche oggi fa arrabbiare la gente. La ritengono blasfema».
L’accesso alle star è ormai estremamente controllato. Crede che nei ritratti di oggi sia evidente la mancanza di spontaneità?
«Ho smesso di fotografare proprio perché i fotografi non hanno più libertà e controllo. Se ti chiamano per fotografare una celebrità, o anche se lo chiedi tu, sei impiegato come tecnico. I manager e gli agenti pubblicitari decidono tutto. Controllano ciò che fai e poi lo danno ad altri che manipolano le immagini. Forse una brutta foto può costare il lavoro a una modella o a una celebrità, e le attrici, man mano che il tempo passa, sono ansiose e timorose per il loro aspetto, ma un bravo fotografo sa fare il suo lavoro, sa mettere a proprio agio e guadagnarsi la fiducia del soggetto.
Ora invece le foto vengono trattate con 18 ore di Photoshop, anche le supermodelle si ritoccano e ci vogliono ore al computer prima di finire su una copertina. La cosa interessante è che queste bellezze spesso non si sentono affatto belle, non si vedono come le vediamo noi. Le donne più belle che io ho fotografato erano insicure, ragazze normali dietro la maschera. Sono state fortunato, come fotografo sono riuscito a creare un rapporto di fiducia che ha permesso al loro fascino di esprimersi naturalmente».
Preferisce lavorare in studio o all’aperto?
«Entrambi. Mi sono rotto un dente per fare reportage in strada con Beatles e Rolling Stones, per catturare il momento magico che raccontasse una storia. Ma se fotografi una celebrità hai bisogno di controllare le luci in uno studio. Devi instaurare un rapporto con il soggetto, e su commissione, con agenti e manager intorno, non funziona».
La bellezza autentica è andata perduta e ha fatto posto a quella fabbricata?
«La bellezza naturale deve emergere. Il compito della fotografia è questo: rivelare la persona dietro la maschera».
L’aspetto più divertente della sua carriera?
«Sono stato al posto giusto nel momento giusto e con la macchina fotografica. Sono stato bravo ad ottenere la fiducia degli artisti. Nemmeno Frank Sinatra ha mai provato a fermarmi, né in pubblico né in privato. Ero amico dei Beatles e degli Stones, i musicisti mi chiamavano nel backstage, gli attori mi volevano sul set e ho incontrato le donne più belle, da Brigitte Bardot a Elizabeth Taylor. E poi ne ho sposata una»
frank sinatra negli anni sessanta
Quale uomo aveva più stile, fra i suoi soggetti?
«Lo stile ce l’hai o non ce l’hai, non si può costruire. Keith Richards, ad esempio, era naturalmente “cool”. L’ha quasi inventato, quel termine. Se Sinatra entrava in una stanza, sentivi la sua presenza ancor prima di vedere la sua figura. Il gusto lo puoi imparare, ma il fascino è nel dna».
Erica Schwiegershausen per New York Magazine
brigitte bardot secondo oneill
La prima fotografia che ha scattato?
«Andai agli studi di Abbey Road per fotografare un gruppo chiamato Beatles che registrava una canzone intitolata “Please Please me”. Il giorno dopo chiesi di fotografare gli Stones ma i miei capi al giornale li ritenevano dei mostri preistorici, così mi spedirono anche dai Dave Clark Five, che erano più presentabili. Poi misero le foto a confronto titolando “La bella e la bestia”. Furono le prime foto pop su un giornale inglese».
Cosa distingueva i suoi ritratti?
«Erano candidi e veri. Quando incontrati Ava Gardner, le dissi che avrei voluto fotografare il suo ex marito, Sinatra. Le scrisse una lettera e da allora mi si aprirono tutte le porte. Frank Sinatra, che la amava, mi fece entrare completamente nella sua vita. Trascorremmo tre settimane insieme e lavorai con lui per 40 anni».
Era amico dei suoi soggetti?
«Non mi è mai piaciuto diventare troppo intimo delle celebrità. Ero un fotografo, facevo il mio lavoro. Solo ora che mi guardo indietro dico: “Caspita, ho avuto una vita fantastica!”»
Come nacque la foto di Faye Dunaway?
«Prima degli Oscar le dissi che, se avesse vinto, l’unica foto in circolazione sarebbe stata di lei che riceveva il premio. La solita, insomma. In realtà sapevo che il giorno dopo la vittoria di un Oscar, gli attori ricevevano centinaia di offerte e il loro valore schizzava da 100.000 dollari a 10 milioni di dollari. Volevo cogliere questo stordimento. Lei accettò e si alzò alle sei del mattino per prestarsi al mio obiettivo. Divenne una delle foto più famose di Hollywood».
Lo scatto della Bardot che fuma con il vento è stato un colpo di fortuna?
«Sono stato fortunato a incontrare grandi personalità. Non ce ne sono più. Non esistono più le star. Gli attori di oggi si vestono tutti uguali e fanno sequel».
L’idea di celebrità è cambiata da allora?
David Bowie and William Burroughs in una foto del di Terry ONeill
«Oh sì. Ora non ti sorprende più vederle. Vanno ai talk show, parlano sempre e ovunque. Hanno perso l’alone mistico».
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