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Malcom Pagani per Il Foglio (estratti)
MICHELE MASNERI - FOTO DI MASSIMO SESTINI
Strade piene di turisti, deiezioni canine e orologi che non segnano mai la stessa ora. Rumori, odori e giornate assalite da un crescente senso di inutilità. Il vero tema di Paradiso, il romanzo di Michele Masneri (Adelphi, 187 pp., 18 euro) è il tempo. Un’illusione che si consuma mentre il contesto, immobile, si affanna a riempirne i vuoti.
Direttori che pagano i giornalisti con i doni dello sponsor, giovani mosconi ipocriti che sono già vecchi, città che attendono soltanto che si celebrino i propri funerali e in mezzo, l’incerto destino di Federico Desideri, soldato semplice e redattore senza portafogli, lanciato all’inseguimento di un’intervista impossibile sotto l’azzurrissimo cielo di Roma.
Masneri osserva e descrive universi che non esistono più, esistenze trapassate che meriterebbero la pietà di un necrologio, terrazze senza allegria affacciate sui cimiteri e in un orizzonte eminentemente funerario scova con talento un punto di vista vitale. Se l’unica industria rimasta nella Capitale è “la fabbrica delle sòle”, ma anche le truffe hanno smarrito la grazia circense dell’epoca che fu, bisogna provare a ingannare anche sé stessi e inventare un altro mondo, nascosto alla vista, in cui il tentativo di morire e rinascere ogni giorno confina con l’azzardo e con la poesia.
Sarebbe fin troppo facile riconoscere nella riserva indiana che dà il titolo al libro la disillusione di uno scrittore che, proprio come il Calligarich de L’ultima estate in città, a Roma finisce per perdersi e perde tutto quel che ha: “Roma ha in sé una ebrezza particolare che brucia i ricordi. Più che una città è una parte segreta di voi. Una belva nascosta”.
(…)
Al protagonista del viaggio raccontato da Masneri accade ciò che capita a chi visita la California: “La prima volta ti sembra il paradiso, la seconda la ami, la terza ti viene addosso qualcosa di drammatico e ti vien voglia di fuggire”. Ma in Paradiso non ci sono vie di uscita perché, sembra dirci MM, ogni fuga, come nel gioco dell’oca, è un ritorno al punto di partenza.
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Se qualcosa non torna è perché la vita non somiglia a una sceneggiatura né alla canzone di Patty Pravo che ha quasi lo stesso titolo del libro: “La vita è così / tu quando non hai / vuoi avere di più / e dopo che hai / ti accorgi che tu / fermarti non puoi”. La vita è ciò che non sappiamo vivere, la vita è un addio che non trova la degna liturgia per esser tale: “Mi dispiace perché litigavamo benissimo”. La vita è un sipario che si chiude fino a quando qualcuno non ha la prontezza di riaprirlo. “Non era tutto finito?”. Sembrava. Sembrava soltanto.
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