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1.TOUR: 13/A TAPPA; TRIONFO DI NIBALI SULLE ALPI
vincenzo nibali vince la tredicesima tappa del tour sulle alpi
(ANSA) - Vincenzo Nibali ha vinto per distacco la 13/a tappa del Tour de France di ciclismo, da Saint Etienne a Chamrousse, 197 km con arrivo in salita sulle Alpi. L'azzurro, che indossa la maglia gialla, consolida cosi' il suo primato in classifica. E' la terza vittoria di Nibali in questo Tour.
Leonardo Coen per “il Fatto Quotidiano”
vincenzo nibali vittorioso al tour de france
Il Tour de France 2014 affronta le Alpi, un tappone dal sapore antico: la maglia gialla Vincenzo Nibali vorrebbe tagliare per primo il traguardo di Chamrousse, in Savoia, alla fine di un’estenuante salita lunga oltre 18 chilometri. Non soltanto per consolidare il primato. Bensì, per dedicare la prestigiosa vittoria a Gino Bartali, che proprio oggi avrebbe compiuto cent’anni: era nato, infatti, il 18 luglio in quel di Ponte a Ema, allora una Rio Bo alle porte di Firenze.
I passi alpini del Giro e del Tour furono il campo di gloria delle imprese di Ginettaccio, svelto sui pedali ma ancor di più con la lingua. Era anarchico in corsa e polemico dopo. Un campione brontolone, scorbutico, diffidente. Una volta, accadde nel Giro del 1947 durante la tappa dolomitica da Vittorio Veneto a Pieve di Cadore, su un tornante uno spettatore gli urlò a squarciagola “prete falso!”, perché era noto il suo fervore religioso e la sua militanza cattolica come terziario dei Carmelitani.
Però non era il tipo da offrire evangelicamente la guancia. Scese dalla bici e gli mollò un ceffone. Poi, riprese la corsa e passò primo sul Mauria. Quell’anno rimase 13 giorni in maglia rosa, ma fu Fausto Coppi a strappargli il Giro. Bartali vinceva in modo omerico. Perdeva in modo altrettanto omerico.
Ci ha lasciato il 5 maggio del 2000, andò in fuga in paradiso, si disse, e fu un giorno di commozione nazionale. Tant’è che ormai fa parte della nostra memoria collettiva, nel pantheon di quegli italiani “indimenticabili”. Anzi, è ormai tante cose radicate nei nostri pensieri, nelle nostre emozioni. Nei luoghi comuni. È un mantra che ripete “l’è tutto sbagliato, l’è tutto sbagliato”, l’accento toscano, la voce roca.
È una canzone di Paolo Conte, con quel naso triste come una salita, quegli occhi allegri da italiano in gita che ai francesi gli girano le balle e s’incazzano. È il fuoriclasse in bicicletta che salvò l’Italia dalla guerra civile, quando lo studente di destra Antonio Pallante sparò a Palmiro Togliatti, il 14 luglio del 1948, e lui, dopo un’accorata telefonata di Alcide De Gasperi, recuperò venti minuti a Louison Bobet e trionfò al Tour de France dieci anni dopo la prima vittoria del 1938.
Soprattutto, è il fiero antagonista di Fausto Coppi, negli anni difficili del dopoguerra, in un’Italia che ricomincia a vivere e sognare e con i loro formidabili successi ritrova l’orgoglio di un Paese sconfitto.
È il corridore pio e devoto alla Madonna che si batte contro il Campionissimo, alfiere dei laici, l’amante della Dama Bianca: l’Italia fu bartaliana o coppiana, come fu “bianca” e “rossa”. Il ciclismo visse anni d’oro, era lo sport più popolare, più amato, più l’uno diceva dell’altro “quello là”, la rivalità veniva enfatizzata, i cinque anni che li separavano – Bartali vecchio Coppi giovane – diventavano spunto di riflessioni epocali.
Penso a Curzio Malaparte che scrisse nel 1949: “Bartali è il campione di un mondo già scomparso, il sopravvissuto di una civiltà che la guerra ha ucciso: egli rappresenta quel romanticismo inquieto e inquietante che ha raggiunto l’apice fra le due guerre e perpetua nel mondo moderno lo spirito eroico della vecchia Europa”. E ancora: “In Bartali, nato da una famiglia di agricoltori toscani, prevale il contadino, con la sua mistica elementare, la sua fede in Dio, il suo attaccamento ai valori tradizionali della terra”. Piaceva alla gente perché la fatica di un ciclista l’Italia povera la conosceva bene, l’Italia dei ladri di bicicletta, del riso amaro, di bellissima.
Ma Gino Bartali è stato anche il campione partigiano che nei tempi bui dell’occupazione nazista e del regime di Salò , salvò la vita di centinaia di ebrei ed antifascisti mettendo a repentaglio la propria. Con la sua bici, fu il postino della rete clandestina che forniva documenti falsi agli ebrei e agli antifascisti nascosti in Umbria e Toscana, salvandoli dagli occupanti nazisti e dai loro collaboratori repubblichini. Bartali non se ne vantò mai, al figlio Andrea che gli chiese perché era sempre rimasto zitto, rispose: “Certe cose si fanno, non si dicono. Certe medaglie si appendono all’anima, non alla giacca”.
Lo Yad Vashem, il museo dell’Olocausto, gli ha attribuito un albero nel Giardino dei Giusti di Gerusalemme. Era uomo perbene: pensava fosse suo dovere aiutare le vittime della persecuzione. Non agì spinto da ragioni politiche: “La politica – disse una volta – non mi faceva né caldo né freddo. Il mio mestiere era quello di corridore”. Conosceva De Gasperi, che era un suo tifoso, come Einaudi, come Andreotti. Come Papa Montini. Pure Togliatti, in ospedale, volle essere aggiornato sui progressi trionfali di Bartali al Tour. Tornato in Italia, Ginettaccio ebbe l’umiltà di dire: “Non so se ho salvato il Paese. Di certo gli ho ridato il sorriso”.
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