DAGOREPORT - CHI L’HA VISTO? ERA DIVENTATO IL NOSTRO ANGOLO DEL BUONUMORE, NE SPARAVA UNA AL…
Beba Marsano per corriere.it
È l’anno dei compleanni a cifra tonda: il secolo del Vittoriale, dimora-palcoscenico della vita inimitabile di Gabriele d’Annunzio, i 1.600 anni di Venezia, i 2.600 di Agrigento. Traguardo che la città dei templi, al netto delle restrizioni pandemiche, ha salutato con il ritorno in Cattedrale di quel corpus di sarcofagi greco-romani, oggetto di sconfinata ammirazione da parte dei viaggiatori del Grand Tour.
Quattro capolavori, trasferiti per ragioni di sicurezza in altre sedi (chiesa di San Nicola e Museo Archeologico Regionale) in seguito alla frana del 1966 e riaccolti, dopo un esilio di oltre mezzo secolo, in un nuovo spazio espositivo al Museo Diocesano, allestito con supporti multimediali finalizzati a magnificare storia, fascino, mistero di questi marmi mirabilmente lavorati e scolpiti.
Ippolito e Fedra
Un richiamo ineludibile per i globe-trotter del passato che, dopo l’abbagliante full immersion nella Valle dei Templi, guadagnavano stancamente il colle di Girgenti per un ulteriore supplemento di meraviglia. Erano le penombre della chiesa madre di San Gerlando — accattivante aggregazione di stili, dal normanno al barocco attraverso il gotico chiaramontano e il rinascimento — a custodire il patrimonio di antiche sepolture. Le due più lineari di età greca; le altre, più complesse, d’epoca romana: il sepolcro detto delle «donne coronarie» per le figure impegnate nell’intreccio di corone d’alloro e la superstar del gruppo, il sarcofago di Ippolito e Fedra (II-III secolo d.C.).
«Magnifica Arca» rinvenuta nel 1750 nella necropoli di Agrigentum, sviluppa con rilievi superbi il mito tragico di una passione incestuosa, quella di Fedra, sposa di Teseo, re di Atene, per il figliastro Ippolito. Respinta dal giovane, la regina lo accusò per vendetta di averla violata e si tolse la vita. Il sarcofago diventa una delle opere più famose d’Europa in virtù dell’entusiastica descrizione apparsa nel Viaggio in Sicilia e Magna Grecia del barone Joseph Hermann von Riedesel, che vi si imbatte in un giorno di marzo del 1767. Le sue parole accendono di curiosità anche Johann Wolfgang von Goethe, che sacrifica Siracusa e Selinunte a favore di Agrigento e nel suo Viaggio in Italia scrive, a sua volta, «di non avere mai veduto nulla di più ammirevole in fatto di altorilievi».
Una bellezza da brividi
Sebbene alcuni autori ottocenteschi abbiano giudicato l’opera un «monumento di mediocre scultura», in quanto «difettosa e ineguale», la fama del sarcofago giunge intatta fino in Russia grazie al letterato Avraam Sergeevic Norov (traduttore di alcuni frammenti della Commedia dantesca), per il quale la sua bellezza «scuote i nostri sentimenti quanto le tragedie di Euripide e Racine». Meta di un eccezionale flusso di visitatori, il sarcofago viene tenuto sotto chiave e mostrato a discrezione di un sagrestano, il cui arbitrio lascia a becco asciutto molti viaggiatori, che ripartono senza averlo potuto ammirare. Non è tra questi lo scrittore e diplomatico tedesco Carl August Schneegans, che ne rimane ipnotizzato, tanto da non riuscire a staccare lo sguardo, per poi affermare che l’opera giustificherebbe da sola il lungo, tortuoso, disagevole viaggio fin lì.
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