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Antonio Riello per Dagospia
Londra: Mutande, boxer, tanga, corsetti, reggicalze, reggiseni, sottovesti, vestaglie, mutandine. Si’, tanta roba di tutti i generi e per tutti i gusti. Ma non siamo in uno dei tanti sex shops - un po’ squallidotti - di Soho e nemmeno nel nuovo rutilante negozio di Victoria’s Secret in Mayfair. Siamo invece in una mostra intitolata “Undressed: a brief history of Underwear” al Victoria and Albert Museum, in pratica il Museo delle Arti Applicate della capitale britannica. Il Curatore e’ Edwina Ehrman. Gli Sponsors: Revlon e Agent Provocateur.
Il tema, nel senso piu’ ampio e ricco possibile, e’ la cosiddetta biancheria intima: tecnicamente quello che di solito portiamo direttamente a contatto con la pelle. Di fatto una complessa e avvincente esposizione che verte sui rapporti, almeno cosi’ come si sono sviluppati in occidente negli ultimi due secoli, tra la moda intima e la moda vera e propria. Ma ovviamente, anche e soprattutto, una ricognizione sull’ idea corpo e sulla sua evoluzione. Anatomia, Storia e Antropologia sono qui questioni altrettanto importanti degli aspetti tecnico-merceologici e dei cambiamenti del gusto.
Si esplora la mostra, organizzata su due piani, piacevolmente accompagnati da una musichetta di sottofondo, un po’minimalista che oscilla in permanenza tra il rilassante e l’ossessivo (della quale in verita’ quando si esce, quasi quasi, si sente la mancanza).
Bellissime le prime camicie da uomo (che erano anche contemporaneamente canottiere e “magliette della salute”). Sono di lino leggero, rigorosamente bianche, con sbuffi, gloriose e magnifiche che fanno a pensare a quella che indossava Luigi XVI il giorno in cui e’ stato ghigliottinato.
Poi una valanga di mise intime da signora con crinoline (una specie di enorme sottogonna sostenuta da una struttura semirigida) di varia foggia, e naturalmente tutto lo scomodo e ingegnoso l’universo che ci gira intorno: le stecche di balena, le strutture in legno leggerissime e flessibili, le particolari stoffe. La crinolina tenne banco, con alterne fortune, per gran parte del XVIII e del XIX secolo. Rappresentava uno status symbol perche’ piuttosto costosa e anche perche’ non permetteva a chi la indossava, impedendo in pratica molti movimenti, di lavorare manualmente.
Odiata dalle sufragette e disprezzata dai rivoluzionari rappresentava in effetti uno strumento di oppressione calibrato sulle signore di un certo livello sociale. Qualcosa che sta tra la convenzione sociale imposta e l’autopunizione. Una faccenda che oggi ricorda da vicino certe costose pratiche, piuttosto diffuse, di chirurgia estetica della parte inferiore del volto (con la differenza, rilevante, che pero’ la crinolina la si poteva facilmente togliere a differenza della “bocca rifatta”…). Ma il vero enfant terrible e’ il temibile corsetto.
Temibile perche’ ha rappresentato un attentato alla salute di molte donne creando o peggiorando problemi respiratori e cardiaci (fashion victim per davvero!). Un corsetto tra l’altro richiedeva per essere messo “in esercizio” la forza di parecchie persone contemporaneamente, questa energia potenziale veniva in un certo senso portata appresso durante il giorno e liberata solo quando la sera lo si slacciava/scaricava per coricarsi. Deformava il corpo femminile stringendo inverosimilmente la vita e accentuando allo stesso momento il seno. Controllo ma anche seduzione ambiguamente saldati nello stesso oggetto.
Un oggetto (in certi periodi combinato alla crinolina) che era essenzialmente uno strumento per “contenere” e dominare simbolicamente e fisicamente la sessualita’ femminile. L’equivalente dei famigerati piedi deformati delle donne cinesi di un tempo. Siamo comunque gia’ ai primordi dell’idea che il corpo umano sia modificabile e trasformabile superandone i limiti e le forme naturali. Sogno/incubo che tornera’ tante volte nel campo della letteratura, della cultura popolare (fumetti e relativi supereroi) e delle arti visive (basti pensare per esempio alla mostra “PostHuman” del 1993 dedicata proprio a questo argomento o semplicemente al lavoro sempre in corso dell’artista francese Orlan).
Ma anche il postribolo, almeno quello di un certo tono, aveva comunque nell’ottocento il suo complesso dress code: calze di seta, giarrettiere, pizzi, colori vivaci, piume, vestaglie ricamate e aperture ammiccanti. In questo contesto il corsetto diventava molto spesso esplicitamente attrezzatura sado-maso. Dall’altra parte il gentiluomo, a casa sua, portava abitualmente vestaglie (vere e proprie palandrane) ricche e sciccose.
Il vestito era da mettere solo quando si esce. Si possono ammirare in mostra, sempre per “lui”, anche degli stupendi mutandoni francesi in flanella rossa che secondo un medico del tempo, il Dott. Gustav Jaeger, avrebbero dovuto sviluppare “autonomamente” del calore, proteggendo cosi’ chi le indossava dai rigori invernali. Ricordano da vicino le famose bragone rosse larghe tipiche dell’esercito francese della Belle Epoque con un indefinibile tocco steam-punk. Energia alternativa in anticipo di un secolo: un tipo di “fusione fredda” catalizzata dal colore rosso? O dalla flanella? O da qualcosa d’altro?
Per i contadini e le popolane invece sempre mutandoni di lana e via. I poveri neanche quelle, di solito.
Poi, agli inizi del novecento, l’arrivo dei “Tempi Moderni”’. Imperano il bianco, il nero e un indefinibile e sgradevole “color carne”. Le prime aziende iniziano a produrre industrialmente intimo (i tedeschi e i britannici sono i piu’ intraprendenti, e gia’ allora sembrano in freoce competizione tra loro) e tutto si semplifica. L’intimo, come l’architettura, si fa razionalista. Biancheria certo piu’ economica, ma anche piu’ pratica che consente finalmente alle donne di lavorare con agilita’. E intorno una diffusa sensazione di igiene e di pulizia, sempre appunto inevitabilmente associata ad una efficiente e tremenda Modernita’.
Uno dei reperti piu’ curiosi, memoria evocatrice dei massicci attacchi aerei nazisti su Londra nel 1940, e’ una pratica tuta-pigiama “Shelter Suit” unisex in flanella, bella calda e provvista di diverse tasche. Andava indossata di notte per essere sempre pronti a raggiungere, senza doversi cambiare, il rifugio antiaereo in caso di emergenza per un bombardamento. D'altro canto la maglieria di lana inviata al fronte ai militari da mamme, mogli e fidanzate, costituira’ uno dei pochi conforti, non solo sul piano pratico, per milioni di uomini mobilitati in guerra.
Una rivoluzione, iniziata negli anni trenta, giunge con i primi materiali sintetici come il Rayon e l’uso esteso di fibre elastiche. Il Nylon entrera’ nei consumi massa solo dopo il 1946. Tutto diventa leggero e si colora di colori prima mai visti. Biancheria di massa per masse. Spesso pubblicizzata anche con vaghe e pretestuose indicazione terapeutiche. Chi non ricorda uno dei simboli del ritrovato benessere italiano degli anni sessanta: la cintura del Dott Gibaud, che si vendeva “solo in farmacia” ?
Le calze di seta (e i reggicalze) vanno in pensione sostituite dai collant di Nylon. Le sottovesti sono spesso stampate con motivi floreali. Arrivano i boxer per l’uomo. Compaiono negli anni sessanta per la prima volta indumenti in rete per uomini, direttamente derivati da quelli in dotazione all’esercito norvegese. Diventeranno poi una icona dello stile gay.
Le T-shirt, evolvono rapidamente da biancheria allo status di abbigliamento vero e proprio e poi diventano, in modo imprevisto, il veicolo di comunicazione non verbale piu’ di popolare della cultura giovanile. Un fenomeno assolutamente epocale ancora in atto. Tra gli oggetti esposti c’e’ anche un bel completo da notte da uomo stampato con fantastiche immagini di rivolte urbane, chissa’…un “pigiama rivoluzionario” ? In mostra anche il Wanderbra, il super reggiseno, per diversi anni oggetto di culto di molte signore.
Negli agli anni novanta l’underwear comincia da essere un affare anche per gli stilisti acclamati e le linee di intimo si moltiplicano vertiginosamente, diventano da una parte piu’ care ed esclusive, dall’altra cercano di attirare “democraticamente” consumatori e consumatrici di tutte le risme. L’intimita’ di un tempo diventa sempre piu’ una questione “pubblica”, da vedere, esplorare e pure da esibire eventualmente.
Certe case di moda realizzano perfino collezioni utilizzando solo abbigliamento intimo portato sopra il vestito anziche’ sotto. Insomma sembrerebbe che il cosiddetto “intimo” avesse fatto una specie di lunga e sanguinosa (sicuramente sudorosa) guerra di liberazione per affrancarsi da dove per secoli era rimasto nascosto e sconosciuto per migrare verso l’esterno e diventare finalmente visibile, famoso e felice . Una inconsapevole e bizzarra, ma certo efficace, metafora di cambiamenti di prospettiva sociale ed emancipazione.
“UNDESSED: A BRIEF HISTORY OF UNDERWEAR”
Victoria and Albert Museum, Cromwell Road, LONDON SW7 2RL
Dal 16 Aprile 2016 al 12 Marzo 2017
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