DAGOREPORT - L’ASSOLUZIONE NEL PROCESSO “OPEN ARMS” HA TOLTO A SALVINI LA POSSIBILITA’ DI FARE IL…
Matteo Nucci per Il Venerdì-la Repubblica
Due cose s’imparavano per le strade di Roma negli anni Cinquanta e Sessanta
mentre il boom economico preparava l’escalation della globalizzazione
che tutto avrebbe portato via. La prima era il rispetto della parola data.
C’era qualcosa di sacro nella parola, nella stretta di mano, nella promessa silenziosa.
Qualcosa che se la rompevi erano guai, guai innanzitutto davanti a se stessi. La
seconda erano i debiti da saldare. Debiti morali, in primo luogo.
La fiducia accordata quando nessun altro credeva in noi. Il credito umano ricevuto accennando un grazie a mezza bocca, un grazie inutile perché quello che importa si
vede poi con i fatti e puoi anche dimenticare, puoi fingere di non aver ricevuto
nulla, e allora peggio per te, perché dentro di te c’è qualcuno che sa il debito che non
stai ripagando.
Questa morale di strada, Bruno Giordano, uno dei più grandi calciatori romani, l’ha custodita come una perla, a dispetto di tutto quello che gli è capitato,
di tutte le fantasticherie forgiate sulla sua parabola umana, di tutti gli ostacoli che la sorte, e i tempi con la loro miseria, gli hanno messo davanti. Possiamo seguire ogni dettaglio di questa storia nel libro che Giancarlo Governi ha scritto ora per lui: Bruno Giordano. Una vita sulle montagne russe (Fazi, pp. 223, euro 15).
Scoprendo, per esempio, che diversamente da quel che tutti hanno sempre creduto a Roma, Giordano non ha mai fumato una sigaretta in vita sua, non ha mai bevuto un bicchiere e non ha mai giocato a carte.
«Quando Italo Allodi m’incontrò per discutere il mio passaggio al Napoli, alla
fine dell’incontro mi fece: “O sei un attore o mi hanno detto un sacco di bugie”. “Perché?” gli faccio io. “Beh siamo qui da ore e tu non hai toccato una sigaretta. Non hai
bevuto nulla. Solo bicchieri di quest’acqua minerale”. “Sono astemio, non ho mai fumato. Quanto alle carte di cui fantasticano, non so giocare manco a briscola”. Erano storie. Storie che non sono mai passate. Alimentate da fatti di cronaca che mi sfioravano e in cui non ho mai avuto nulla a che fare. Ma sai come si dice a Roma? Mi hanno detto… Poi tu chiedi: ma chi? Chi te l’ha detto? Che stai a di’? E allora non c’è risposta. Intanto però la diceria si diffonde. Sai quante ne ho sentite, su me e sugli altri, in questi anni?».
Bruno Giordano pesa le parole. Ormai ha imparato bene. Dopo aver smesso, nel ‘92, è stato allenatore di molte squadre e commentatore in tv. Ha tenuto duro, soprattutto. Perché certe idee sul suo conto non sono mai state estirpate e ancora oggi, anche fra i suoi tifosi laziali, quelli a cui ha cercato durante la carriera di rimettere tutti i debiti, c’è chi lo crede colpevole di mille nefandezze. «Mi sono abituato. So benissimo che l’assoluzione piena con cui finì il processo calcioscommesse non mi ha liberato dell’onta. Fu la giustizia sportiva a punirmi sulla base di un pregiudizio e nessuna conferma. Mi hanno tolto due anni di vita calcistica nel momento migliore. Mi hanno tolto il Mondiale del 1982. Ho sofferto moltissimo. So che con la testa che ho adesso quelle cose non sarebbero capitate. Non mi sarei affidato a avvocati che mi portarono soltanto via un sacco di soldi. Avrei saputo come difendermi.
È la più grande ferita della mia vita». Una ferita il cui risarcimento arrivò con Maradona, che volle Giordano al suo fianco per costruire la Ma.Gi.Ca, Maradona, Giordano, Careca. «Anni indimenticabili in una città straordinaria. Difficile capire perché Roma e Napoli a livello calcistico non siano unite contro lo strapotere del Nord e si facciano guerre di parrocchia suicide. Non lo capirò mai». Del resto, lui che ha ispirato poeti come Valentino Zeichen e la sua celebre A Bruno Giordano, e continua a ispirare scrittori come Edoardo Albinati che gli regala la prefazione al libro, ha uno sguardo sulle cose del calcio che va molto oltre il tifo.
«Sono nostalgico? Forse. C’erano cose ai nostri tempi che io preferivo. Preferivo la partita tutti quanti alla stessa ora, con l’ansia di sapere mentre giocavi cosa facessero le altre squadre. Preferivo meno stranieri, squadre ancora profondamente legate alla città e al paese. Preferivo il tifo, gli sfottò romani, le prese in giro prima della violenza che divenne drammatica con la morte di Paparelli durante quel dannato derby del 1979. Ma non è nostalgia pura. I tempi cambiano ma certi atteggiamenti no.
Guardate Totti. È stato un grande per questa città. Lasciamo perdere come giocava, che lo vedeva chiunque che si trattava di un genio. Ma quel che ha fatto per Roma. Un giorno lo capiranno anche i laziali. Sarebbe bello se qui fossimo più uniti, aldilà delle rivalità di club. A cui siamo tutti legati eh, per carità. Quando Chinaglia voleva vendermi alla Roma, io gli dissi: ma sei pazzo? Non potrei mai più girare per strada. Non lo farò mai». Eppure sia suo padre, il tappezziere che aveva bottega dalle parti di Campo de’ Fiori all’ombra della statua di Giordano Bruno che pur di non abiurare fu messo al rogo, sia il suo padre spirituale, Don Pizzi, il sacerdote che salvò generazioni di ragazzini portandoli a giocare a pallone all’oratorio e insegnando loro a rimettere i debiti, entrambi erano romanisti.
«Si sentirono quasi costretti a tifare Lazio. Don Pizzi però non poteva che mantenere la sua fede. Anche adesso che a 95 anni viene a dare il calcio d’inizio alle partitelle che organizziamo per beneficenza. Certo, la Roma in cui sono cresciuto non c’è più. Da ragazzino non esisteva per me altro mondo che Trastevere. Poi ne uscii. Ora ci torno e di sera non trovo più nulla. Di giorno ancora qualcosa, qualche amico, angoli che raccontano tutta una storia. Ma il dramma è che non ci sono più i romani. Devono tornare i romani a Roma, con la loro dignità e il loro orgoglio, perché rinasca questa città».
Nel libro di Governi, altro romano e laziale doc, c’è molto spazio per episodi sospesi fra l’epos e il grottesco. Come la grande Lazio di Maestrelli che Giordano fece in tempo a vivere nella sua decadenza («Erano dei veri pazzi. Tutti con la pistola e il fucile. Chiedevano all’autista del pullman di fermarsi, entravano nel bosco e iniziavano a sparare all’impazzata. Divisi in due fazioni, si odiavano ma la domenica potevano farsi uccidere in nome del club e di Maestrelli»).
Come Re Cecconi sulla cui morte assurda Giordano non finisce di nutrire dubbi («Come poteva quello che noi chiamavamo “il saggio” morire così stupidamente? Fare uno scherzo così estraneo al suo carattere? Il gioielliere gli sparò e lo conoscevano tutti nel quartiere. Biondissimo, inconfondibile. Non mi do pace. Era un amico straordinario. Gioì più lui di me al mio gol nella partita d’esordio. Aveva un cuore enorme»). O come il folle allenatore Juan Carlos Lorenzo che Chinaglia richiamò in panchina quando da presidente portò la Lazio sul baratro («Mi diceva di non battere le punizioni ma andare nella barriera avversaria e dire “toglietevi cornuti, figli di puttana”. Secondo lui, si sarebbero arrabbiati e agitati così chi batteva avrebbe fatto gol»).
C’è poco spazio per la sua famiglia, invece. A cui Giordano ha dato sempre tutto, nelle migliori e nelle peggiori situazioni. «Volevo questo libro soprattutto per i miei figli. Non ho mai detto una menzogna in vita mia. Non ne sono capace. Ma si è detto di tutto sul mio conto. Perché Roma è fatta così. Volevo che restasse qualcosa prima che io dimentichi e ogni cosa scivoli via. Volevo che restasse un luogo per conoscere la verità».
Giordanostefano di chiara bruno giordanobruno giordano
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