DAGOREPORT - L’ASSOLUZIONE NEL PROCESSO “OPEN ARMS” HA TOLTO A SALVINI LA POSSIBILITA’ DI FARE IL…
Walter Veltroni per il “Corriere della Sera” - Estratti
Tutto accadde al settantasettesimo.
Fin lì c’era stato un equilibrio perfetto, si profilava uno zero a zero che avrebbe fatto tirare un sospiro di sollievo ai residui sostenitori della Ostpolitik, quella strategia di relazioni tra le due Germanie di cui Willy Brandt era stato fine e coraggioso tessitore.
Scherzando si potrebbe sostenere che Brandt, intuendo nettamente cosa sarebbe avvenuto un mese mezzo dopo, il 22 giugno del 1974, decise di dare le dimissioni il 6 maggio.
Non fu in realtà lo scandalo Guillaume, il suo collaboratore che si scoprì essere una spia della Stasi, a decretare la fine del cancellierato di Brandt, ma la previsione del gol di Jürgen Sparwasser, centrocampista offensivo della Ddr, con il quale la Germania Est prevalse su quella dell’Ovest in una partita che, pur essendo ambedue le squadre qualificate al girone successivo dei Mondiali del 1974, aveva però assunto palesi significati storici.
Riviviamo con le parole di Günter Grass l’impresa di Sparwasser in quel settantasettesimo minuto allo stadio di Amburgo che ammutolì: «Accalappiò il pallone con la sua testa, se lo portò sui suoi piedi, corse di fronte al tenace Vogts e, lasciandosi persino Höttges dietro, lo piantò alle spalle di Maier in rete».
Diventò subito eroe nazionale, mito del socialismo realizzato, icona, con la foto del gol, di generazioni severamente educate ai valori del socialismo.
Eppure anche lui, l’eroe di Amburgo, nel 1988 decide di mandare tutto all’aria. Aria che era diventata, anzi era sempre stata, irrespirabile. In un Paese in cui c’era una spia ogni cinquantanove cittadini, in cui tutto era sotto l’asfissiante controllo della Stasi, Jürgen Sparwasser decise di fuggire, con sua moglie, approfittando di una partita di Vecchie Glorie che si svolgeva a Ovest. Non fu il solo. Prima di lui Lutz Eigendorf, altro giocatore di fama. Ma per Eigendorf il destino fu diverso.
Dopo la fuga, sua moglie fu raggiunta da un uomo che piano piano si infilò nella vita della donna fino a convincerla a rompere il matrimonio.
Era un agente della Stasi.
Il regime agonizzante non perdonò a Eigendorf un’intervista televisiva critica verso l’Est rilasciata proprio davanti al Muro. Si dice che durante una cena fu drogato, messo in macchina e mandato a sbattere contro un palo. Basta andare a Berlino, al Museo della Stasi, per rendersi conto che allora queste pratiche, in nome del comunismo, erano abituali.
Sparwasser, lei allora aveva tredici anni. Come fu vissuta la costruzione del Muro?
«Fu uno choc, nessuno si aspettava che nel cuore della città fosse eretto un muro di separazione. Il sentimento che regnava all’epoca era di grande ansia. Ci sono stati casi inconcepibili. Cittadini che quel giorno erano andati a lavorare e che non poterono rientrare nella loro casa. Famiglie spezzate letteralmente in due, persone che non poterono rivedere i loro cari per molto tempo.
Sentivate la pressione della Stasi?
«Il sentimento era quello di un ossessivo, permanente controllo. Sapevamo che membri della Stasi o dei servizi sovietici esercitavano una osservazione costante, bisognava stare attenti a tutto quello che si faceva. Si potevano subire attacchi costruiti ad arte da parte dei membri dell’apparato. L’ossessione del regime era evitare tentativi di fuga a Ovest: era facile essere fermati e costretti a lunghi interrogatori e la catastrofe era se si veniva arrestati. Potevi sparire nel nulla».
Ma c’erano spie anche nelle squadre in cui lei ha militato?
«Di sicuro ce n’erano, ma non mi interessava. Lo so per certo, ma non ho mai voluto sapere chi fossero. Anche oggi, quando ci ritroviamo, non ne parliamo. E io non voglio sapere chi tra i miei compagni, quelli con cui mi allenavo e giocavo, con cui ho condiviso vittorie e sconfitte, avesse firmato un atto di appartenenza alla Stasi».
Sua figlia allora era incinta e dovette restare dall’altra parte...
«Sì, venne più volte interrogata e la minacciarono di toglierle la casa in cui viveva. Ha subìto il controllo telefonico e i pedinamenti. La pressione su di lei era forte. Per questo io, dopo la fuga, non ho mai espresso pubblicamente critiche al regime dell’Est. Avevo paura per lei. Questo credo l’abbia protetta da rischi di ritorsione. Altri familiari di persone fuggite hanno subìto conseguenze molto pesanti».
Lo scambio della sua maglia con Marco Tardelli scatenò un inferno...
«Eravamo nel 1977. Una direttiva del regime stabiliva che era vietato scambiarsi le maglie con i giocatori che rappresentavano squadre provenienti dal regime capitalistico. Così avevano deciso.
Ma io Marco Tardelli lo conoscevo già e quando lui mi ha chiesto la maglia io non potevo certo dirgli che non potevo dargliela per una circolare governativa. Così l’ho scambiata e tengo la sua con me. Vista la scena, da Berlino fu chiamato subito il capodelegazione.
Minacciarono di cacciarmi dalla squadra e di togliermi il permesso di andare all’estero.
Poi non se ne è fatto nulla.
Non volevano capire che lo sport è lo sport e la politica ne dovrebbe star fuori».
(...)Molte persone erano contro il regime e quel gol era diventato un simbolo della propaganda del partito. Compagni o avversari con i quali giocavo me lo rimproveravano. Ma non era colpa mia. Io avevo solo segnato un gol. Avevo fatto il mio dovere di giocatore, di sportivo».
(...)
Ci descrive la paura del giorno in cui è fuggito?
«È indescrivibile quello che ho provato quel giorno. Sono decisioni dalle quali dipende il destino tuo e di tutta la tua famiglia. Se avessi scelto di restare sarei impazzito. Feci quello che ritenni giusto. Il rischio fu altissimo, ma ero talmente disperato per il nostro futuro e per le prospettive del paese, che alla fine mi risolsi a fare quello che era più difficile, ma più giusto. Sono stati giorni angosciosi, pieni di paure. Ma non avevamo altra possibilità. E questo era il dramma collettivo di quel popolo».
Come seppe della caduta del Muro?
«In quei tempi allenavo i giovani dell’Eintracht Francoforte. Al termine di una sessione, stavo tornando a casa, sentii alla radio quello che stava accadendo. Ho fermato la macchina per ascoltare quegli eventi che si succedevano con una velocità impressionante. Tanto il Muro era venuto su in breve tempo, tanto in poche ore fu buttato giù per restituire a tutti noi la libertà perduta».
Cosa significa per lei la parola libertà?
«Libertà è una parola della quale noi, nella Ddr, non conoscevamo il significato, non l’avevamo mai incontrata. La libertà è il piacere di vivere la propria vita, di poter scegliere che strada imboccare, che libri leggere, che pensieri pensare. La libertà è la bellezza di vivere insieme e insieme cercare la felicità. Oggi provo grande paura nel vedere che in molte parti del mondo è tornata la guerra, che tanti esseri umani conoscono l’orrore dei bombardamenti e delle distruzioni. Spero che la diplomazia, e non la forza, riesca a trovare la via per ricostruire la pace. Lo dobbiamo alle nuove generazioni».
Come si spiega che in Germania oggi crescono movimenti neonazisti?
«L’AfD sta conquistando molto consenso nei lander dell’Est ma si sta estendendo anche a Ovest. Questi movimenti proliferano per l’insoddisfazione a livello sociale e per il diffondersi dell’antipolitica. Queste posizioni sono un pericolo, tanto più in vista delle prossime elezioni. Mi auguro che la politica democratica riporti un senso di normalità che è l’antidoto alla politica delle grida e della rabbia».
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