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Gianni Clerici per la Repubblica
Stavamo uscendo dalla tribuna stampa, un poco sorpresi per la sconfitta del peggior Djokovic dell’anno, quando un collega, Angelo Mancuso, non meno profondo dell’esperto di religione, indicava la causa principale della rovinosa vicenda:
“Trenta errori gratuiti Djokovic, per solito, li commette in un torneo “. Un paradosso, certo, che come i paradossi contiene una parte di verità. Infatti, volgendomi ai miei conti scarabocchiati, riuscivo a ricucire che il vincitore della serata, Murray, e confermato numero uno mondiale, di errori ne aveva commessi solo 15, 8 nel primo set e soltanto 7 nel secondo.
Un simile Djokovic di fine stagione non l’avevo sinceramente aspettato, soprattutto dopo la prime serata del Masters, che l’avevano visto vincitore con maggior facilità di Djokovic. Non solo io, avevo atteso una vittoria del serbo, ma quegli iperprofessionisti dei bookmaker, che avevano offerto Nole a 7 a 4, e Andy a 4 a 9. Il match di questa sera è stato un po’ un film a rovescio dei soliti incontri tra i due, nei quali Djokovic conduceva per qualcosa come 24 vittorie a 10.
Esaurita, in qualche modo l’emozione, che ancora visita il vecchio scriba, soprattutto all’ora di chiusura del giornale, le cosiddette dead lines, rimane da spiegare il perché della vittoria dell’uno, e della sconfitta di chi era ancora ritenuto il favorito.
Al di là di umane ragioni famigliari, che influiscono certo, ma non possono essere indagate, il Djokovic di questa sera ha giocato più corto del solito, e con varietà inferiore. Per solito, al termine dei lunghi palleggi che ci procurano ormai i perfezionamenti delle racchette, Nole conclude con qualche rimbalzo vincente, o con qualche drop che gli concede la manina dolcissima. Di queste armi per solito alternate non si è visto quasi nulla questa sera, mentre i palleggi di Andy erano raramente, molto raramente, turbati da errori gratuiti.
È così accaduto che, giocando quasi sempre più profondo, e più angolato del serbo, lo scozzese riuscisse a dirigere la vicenda, mentre Nole non faceva che accorciare, e quindi concedere un campo di proporzioni teoricamente più vaste. Nel suo box Vajda, che è da sempre il suo allenatore, scuoteva il capo, quasi già sapesse che cosa stava accadendo, mentre Becker rimaneva al solito perplesso, quasi la perplessità fosse il miglior modo di esprimere una personalità che mi è sempre parsa incerta, dal giorno dell’uscita dal campo.
Per chi non abbia seguito le vicende televisive, trasmesse purtroppo da bravi commentatori che siedono a Milano, mi par giusto ricordare alcuni numeri, con il break in favore di Murray, che aveva iniziato a battere, nell’ottavo game del primo set. Ancora più in discesa il secondo per Andy il secondo, in cui è stato avanti per 4 a1, dopo una serie di 13 punti a 7, ed è stato soltanto visitato dalla paura di vincere nell’ultimo gioco, in cui gli sono serviti 3 match point, tra le abituali recriminazioni per il disturbo procuratogli da spettatori che credono la vicenda simile a un grossolano festival della musica irrorato di birre.
Ma simile cosiddetto Masters rimarrà a Londra, dato il successo economico, nonostante contraddica i principi che hanno fatto di Wimbledon il sacrario del tennis. Era, il nostro, il gioco del silenzio, e della sconfitta che costava l’eliminazione. Al Masters non è più, ahinoi, la stessa cosa.
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