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1. POCHI, IN PANCHINA E SVOGLIATI: LA GENERAZIONE DEGLI INVISIBILI
Matteo Pinci per “la Repubblica”
Il sasso lanciato da Conte nello stagno del calcio italiano continua ad aprire cerchi concentrici di agitazione nel movimento. Un movimento frustrato dalle parole del ct: l’Italia che fatica a sfornare talenti deve anche fare i conti con il bisogno di «ritrovare la voglia di far fatica» dei propri giovani.
Una sorta di deficit motivazionale che affonda le proprie radici nella realtà del nostro campionato. Un torneo sempre più dominato dagli stranieri, forse non soltanto per colpa dei club. Perché, è vero, in serie A il prodotto italiano fatica a trovare spazio. Lo dicono i numeri, impietosi nel qualificare l’impiego dei calciatori made in Italy: il 55,9 per cento dei giocatori scelti in queste prime 11 giornate di campionato è fatto di stranieri. Come a dire che per ogni squadra soltanto quattro titolari su undici sono nati nel nostro Paese.
Ma se è difficile imporsi in casa propria, è altrettanto vero che i nostri ragazzi non attirano nemmeno l’attenzione dei grandi club all’estero: nonostante i traslochi in Spagna e Germania di Cerci e Immobile, l’Italia è solo ventisettesima nel mondo per esportazioni, con appena 15 rappresentanti nei cinque più importanti campionati d’Europa.
Lontanissime Francia, Brasile e Argentina, che collocano più di 110 elementi ognuna, ma anche Spagna (58), Svizzera e Belgio (più di 40): semmai l’export del nostro calcio è paragonabile per numeri a quello di Grecia, Scozia e Repubblica Ceca. Anzi, dal 2009 a oggi — lo assicura il report annuale dell’osservatorio di Neuchâtel — non c’è un solo paese in tutto il mondo in cui l’importazione di calciatori sia aumentata come in Italia, dove riguarda ormai il 55 per cento delle rose di serie A.
Difficile dare la colpa soltanto alla mia miopia dei club, più facile semmai prendere per buone le parole del ct, e condivise anche da Stefano Okaka, uno che dei problemi dei giovani ne sa qualcosa: finito ai margini dopo un’adolescenza da baby star, ora, a 25 anni, ha ritrovato l’azzurro. E ammette: «Forse è vero che i giovani non hanno voglia, in Italia abbiamo tante difficoltà nel farli crescere. Ma è anche vero che non è mai facile far giocare un ragazzo ad alti livelli: bisogna avere già a vent’anni la testa giusta e non è frequente che capiti».
In fondo, le prime a non credere nei talenti di casa sono proprio le grandi: il 73% dei giocatori impiegati da Juve e Roma, Inter e Milan, Napoli, Fiorentina e Lazio non sono eleggibili per la Nazionale. In alcune circostanze Montella e Benitez — oltre all’Udinese di Stramaccioni, che da anni attinge a sacche di rifornimento estero — sono arrivate a schierare anche undici titolari nati fuori i confini. Al contrario, sono solo tre gli italiani nati dopo il ‘93 impiegati dalle «sette sorelle».
Gente come Bernardeschi, 109 minuti con i viola prima della frattura del malleolo, e le “comparse” Mattiello e Bonazzoli, cui Allegri e Mazzarri hanno concesso una manciata di minuti. La tendenza, per la verità, è sostanzialmente diffusa in tutta la serie A: appena 9 ragazzi fatti in casa e sotto i 22 anni giocano stabilmente, al netto di qualche comparsata occasionale. Proprio mentre gli inglesi di “101 Great Goals” inseriscono 3 italiani fra gli under 21 più interessanti al mondo: Berardi (Sassuolo), Scuffet (Udinese) e Mastour (Milan).
È vero, esistono eccezioni come il Sassuolo — unico club a schierare 11 italiani su 11 in una partita — ma anche come Cagliari, Sampdoria, Empoli e Cesena, club che hanno coniugato buoni risultati alla valorizzazione di giovani locali: Rugani e Okaka, Acerbi e De Silvestri, Rossettini e Gabbiadini, facce nuove della squadra di Conte, altrove avrebbero certamente fatto più fatica ad emergere. Le eccezioni, però, sembrano proprio destinate a rimanere tali.
2. STUPISCE IL SUO STUPORE E LA TRINCEA è UN ERRORE
GiannI Mura per “la Repubblica”
Modi e tempi del Conte-pensiero suscitano più d’una riflessione. La prima è che il ct ha scelto la strada opposta rispetto a Giulio Cesare, antico condottiero. Cesare esaltava la forza degli avversari, ingigantendo così le proprie vittorie. Conte denuncia l’inadeguato valore delle sue truppe. Ma le strade opposte conducono allo stesso punto: se vinci con giocatori scarsi sei bravo, e se perdi che altro potevi fare?
E’ vero che Conte finora non ha perso e che il pari con la Croazia non fosse da buttar via gli è stato ampiamente riconosciuto. Ma alcune sue frasi sembrano un paracadute preventivo, un mettere le mani avanti. E comunque, non più di due anni fa, il tanto vituperato Prandelli era arrivato alla finale degli europei con lo stesso gruppo, più o meno.
Prima di Conte, solo due ct s’erano lamentati degli scarsi spazi concessa alla Nazionale, mamma di tutti in occasione dei grandi impegni e figlia di nessuno nel resto del tempo. I ct erano Prandelli e Sacchi, che aveva un mare più pescoso davanti.
Gli altri ct, quelli usciti dai ranghi federali come Bearzot, Vicini e Maldini, ma anche Zoff, più spazio per gli allenamenti, l’indottrinamento non l’avevano chiesto, sapendo di doversi accontentare di quel che passava il convento. E il convento (il campionato italiano) a loro offriva più di quello che offre a Conte. Su questo non si discute.
Si può discutere su un professionista di valore, qual è Conte, che nel calcio italiano ci sta da una vita e che da tecnico di club non era entusiasta all’idea di tanti dei suoi convocati in azzurro: stupisce il suo stupore. E’ vero che da ct il panorama cambia, ma il sistema che oggi Conte mette sotto accusa lo conosceva bene. Uno con la sua esperienza non poteva aspettarsi, in pochi mesi, di cambiare le cose, i tempi, i rapporti di forza. Solo un ingenuo poteva aspettarselo, e Conte ingenuo non è.
E’ realista, e s’è accorto che il suo tremendismo atletico, il suo fuoco stentano a realizzarsi. Prandelli in marzo aveva parlato di condizione fisica quasi imbarazzante. Il problema era e resta d’attualità. I giovani non hanno più voglia di faticare in allenamento? Può essere, anche se sembra un luogo comune, tipo le mezze stagioni che non ci sono più.
E’ colpa dei giovani o di chi li allena? Dei vivai ignorati o scarsamente produttivi o delle amichevoli di prestigio che servono solo a far cassa, nel precampionato? O dei club che i giocatori li pagano tutto l’anno e maledicono la Nazionale quando glieli restituisce infortunati (Pasqual, Modric)? E’ colpa del sistema, che non ha un nome, un volto, ma tanti. Conte sottolinea la solitudine della Nazionale, quasi volesse farne una trincea. Errore. A meno che non cerchi lo scontro nei mesi di sosta. Il dado è tratto, ma sembra più una pietra.
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