DAGOREPORT – SE C’È UNO SPIATO, C’È ANCHE UNO SPIONE: IL GOVERNO MELONI SMENTISCE DI AVER MESSO…
Carlos Passerini per il “Corriere della Sera”
Qualunque cosa sia, «una strana malinconia» come sostiene Ramon Besa su El Pais oppure più terra terra un dolore muscolare che dura da un mese come ha buttato lì Radio Cadena Cope , è roba contagiosa. Testa o gambe, cambia niente: si ammala Messi, si ammala il Barça.
Fra le molte disamine sulla disfatta dell’altra sera nei quarti di Champions spicca un dato che racconta molto, se non tutto: per la Pulce un solo assist e nemmeno lo straccio di un gol nelle sette partite che negli ultimi dieci anni sono costate l’eliminazione (Liverpool 2007, Manchester United 2008, Inter 2010, Chelsea 2012, Bayern 2013, Atletico 2014 e 2016: in tutto 1442 minuti, praticamente 24 ore). È l’altra faccia della grandezza, la condanna per niente dolce dell’essere irripetibili: se sparisce il più forte, spariscono tutti.
Ed è significativo che per «tutti» s’intenda gente come Suarez e Neymar, due fuoriclasse che al Calderòn sono ricaduti nei vecchi rispettivi vizi, con l’uruguagio che ha fatto a cazzotti con mezzo Atletico — il suo amico Godin è tornato a casa con un occhio nero — e il brasiliano perso dentro al dribbling ossessivo compulsivo, adolescenziale, quasi come se fosse entrato nella macchina del tempo e tornato il ragazzino del Santos.
In questo senso è del tutto naturale che il primo accusato sia Luis Enrique, incapace di escogitare un piano B quando sbiella quello A, il «prendete e segnatene tutti» della premiatissima ditta MSN. Frustrato e sfiduciato, questo Barcellona non ha nulla da spartire con quello che prima dell’infausta pausa per le nazionali aveva piazzato la striscia spaventosa di 39 risultati utili consecutivi. Poi è arrivato il Clasico, il primo segno della crisi acuitasi drammaticamente mercoledì.
Tre sconfitte in quattro partite non sono casualità, non a questo livello, non per il Barcellona, qualunque sia la versione. A proposito: la versione riveduta e corretta del tiki-taka, la «2.0» come l’hanno ribattezzata molti commentatori, funziona al contrario. In maniera cioè deleteria: possesso palla eterno e inutile (72%), una miriade di passaggini (precisamente 616 quelli riusciti, contro i 118 dei Colchoneros), ma poca corsa (gli sgherri dei Simeone si sono fatti 12 chilometri più dei blaugrana, 114,578 contro 102,578) e soprattutto pochi tiri in porta, tiri seri. L’unico a salvarsi, più o meno, è stato Iniesta.
Certo, manca un rigore. Il fallo di mano di Gabi al 91’ era in area, ma gli unici a mettere in croce l’arbitro Rizzoli sono stati tifosi e quotidiani catalani («vergognoso» ha titolato Sport , che ha sintetizzato così lo psicodramma: «Eliminati da un furto»). Dallo spogliatoio invece non una parola, e anche questo può essere letto come un termometro del momento, della serietà della crisi. «Non siamo usciti per colpa dell’arbitro» ha tagliato corto Jordi Alba. Niente alibi, insomma. Roba da perdenti.
Anche perché ammettere la crisi è il primo passo per provare a uscirne. Ci sono innanzi tutto da gestire i 3 punti di vantaggio (76 contro 73, un mese fa erano 8) nelle ultime 6 giornate di Liga, più prepararsi al meglio per la finale di Copa del Rey del 22 maggio contro il Siviglia di Emery. Che, perché il destino ci vede benissimo, si giocherà di nuovo nel maledetto Calderòn.
Chissà se per allora la cura studiata dal dottor Giuliano Poser da Sacile, Pordenone, avrà rimesso in piedi Messi. Oltre a curargli la dieta, pare infatti che ora si occupi anche dei muscoli e di quel problema di cui sopra, che lo affliggerebbe da un mese circa: già, proprio le cinque partite nelle quali non l’ha buttata dentro, astinenza che non si verificava addirittura dal 2010. Nelle stesse cinque, Cristiano Ronaldo ne ha fatti cinque. Perché la nemesi di ognuno di noi è fatta così: quando cadi, mica ti aspetta.
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