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Andrea D'Amico per la Stampa
Quante facce… perché c'è quella arrabbiata, quella felice, quella resa chiassosa da un ghigno o un'espressione, quella «futurista», quella «evoluta». E in questi profili, nascosti dalla barba, poi ce n'è un'altra, ed è quella contemporanea, di un uomo che è uscito dal proprio corpo da calciatore, ha buttato via pantaloncini e scarpette, e si è messo non solo fisicamente la tuta, diventando allenatore, saltellando - forse stavolta più che altrove - l'invisibile linea d'ombra.
gennaro gattuso foto mezzelani gmt027
C'è voluto un po' per diventar semplicemente Gattuso, dopo essere stato «ringhio» e Rino ed aver vissuto quella vita da mediano nella cui interpretazione gli è venuto persino da prendere per il collo Joe Jordan: ma a 42 anni, in questa dimensione stellare che si è ritrovata il Napoli, e dopo essere uscito dal suo mondo - il Milan - in cui gli veniva naturale rimanere fedele alle abitudini della giovinezza, l'esuberanza è stata sistemata sul bordo della panchina da cui è comparso un allenatore che sa essere antico e moderno, gestore e psicologo, futurista o anche «catenacciaro».
Il rinnovo di Mertens
Napoli-Juventus è la sua finale, l'ha conquistata tutto da solo battendo Perugia ma poi anche Lazio e Inter - le antagoniste per lo scudetto di Madame - ed è l'unico percorso che gli appartenga e che non debba condividere con Ancelotti, il suo «papà» ma anche il suo predecessore, dal quale ha ereditato l'11 dicembre una «squadra di talento incredibile» in ritardo in campionato ma qualificata agli ottavi di Champions.
Il «primo» Gattuso, forse c'era ancora un incontrista in lui, è entrato in tackle, qualcosa ha perduto e qualcosa ha sbagliato, poi ha intuito che bisognava imprimere la svolta, ragionare diversamente, misurando l'istinto e dosando anche un pizzico di ragione e nel 4-3-3, che sarebbe un mantra, ha spostato dettagli utili a non dar l'impressione di un eterno Peter Pan.
Il Napoli che con l'1-1 sull'Inter regala a Gattuso la sua terza finale in carriera ancora con la Juve (dopo quella persa in Coppa Italia per 4-0 a Roma e l'altra finita male, però per 1-0, a Jeddah) non si vergogna del suo calcio all'italiana, che gli consente di speculare («complice» un prodigioso Ospina) e di raschiare il fondo del proprio talento: ha una testa che ha smesso di smarrirsi negli «svolazzi» dell'autunno scorso, quelli dell'ammutinamento del 5 novembre poi fatali per l'esonero di Ancelotti.
Dal Maestro all'Allievo è stato un attimo, e Gattuso, a un certo punto, per uscire dagli equivoci, s' è appropriato di qualcosa del suo secondo «papà», entrando nella testa di una squadra alla quale concede spensieratezza ma anche rigore, «leggerezza» e però inflessibilità con se stessa.
E la diplomazia è stata decisiva a fianco di De Laurentiis nell'opera di persuasione su Mertens, sedotto da varie corteggiatrici poi divenuto re del gol, con 122 reti, d'un Napoli che sa di Gattuso, d'una Napoli che sta con Gattuso, come in quel dolore per l'addio alla sorella Francesca: uno striscione in centro, un altro a Castel Volturno, un abbraccio (virtuale) conquistato mettendoci una faccia ma soprattutto il cuore.
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