“CHIARA, TI RICORDI QUANDO HAI AMMESSO A FEDEZ CHE TI SEI SCOPATA ACHILLE LAURO?” - IL “PUPARO” DEL…
Stefano Semeraro per "la Stampa"
La prima volta che ho visto Riccardo Piatti era il 1988, sotto un albero lungo Church Road. Lavorava per la Fit, accompagnava Stefano Pescosolido. Su Wimbledon diluviava, insieme aspettammo che spiovesse.
Riccardo, come è cambiato il tennis da allora?
«Il gioco per niente, e ne sono contento. Deve restare così, fatto di passione. In Italia poi oggi è anche più considerato quindi va bene. Piuttosto sono cambiati i giocatori».
In meglio o in peggio?
«Quando ho iniziato io era tutti amici, compagnoni, scherzavano. Oggi sono avversari, concorrenti. Si rispettano ma stanno a distanza. Tutto è un po' estremizzato».
Come è andato il primo giorno delle Finals a Torino?
«Benissimo, anche i giocatori sono contenti. Ma io lo sapevo che sarebbe stato così. Noi italiani non sembra, ma quando ci applichiamo ci sappiamo fare».
Che cosa è il Masters?
«Un torneo strano. Ci sono gli otto migliori del mondo ma si gioca a fine anno, quando tutti sono stanchi. L'ho vissuto due volte a Shanghai, con Ivan Ljubicic, e tre a Londra, con Gasquet e Milos Raonic. Sei contento di aver ottenuto il riconoscimento degli altri, speri di giocarlo bene ma lo vivi male perché le energie non ci sono più».
Quest' anno lo hai sfiorato con Sinner
«E c'è delusione, inutile negarlo. È stata una bella stagione, ma Jan meritava di stare qui, ha il livello per giocare le Finals. Pazienza, si vede che doveva fare qualcosa in più».
Se ti dicono che Jannik è giovane e ha tempo per rifarsi che cosa pensi? Scommetto che so la risposta.
«Sì, è quella: mi girano le scatole».
Il tennis cos' è per Riccardo Piatti?
«Un gioco, prima di tutto. Io mi divertivo a giocare e a vedere giocare gli altri. Mi sento più vicino a chi la pensa così. Io ho un centro tennis, vivo anche di corsi, della scuola, ma non è tutto lì. Ci sono genitori che mi portano i figli perché un nome ce l'ho, qualcosa ho ottenuto, e si aspettano chissà che cosa. Invece bisogna capire che il tennis è un passaggio, non un fine. Ti fa capire dove puoi arrivare».
Per raccontare la tua storia hai scritto un bel libro, insieme con Federico Ferrero. Ci spieghi in due parole chi è Riccardo Piatti?
«Uno che da giovane è partito da Como e pensava di conoscere il tennis, e attraverso il tennis ha conosciuto se stesso. Ora insegno tennis e sono felice. Perché sono cresciuto come persona».
I complimenti di Boris Becker e di tanti altri sono una medaglia?
«Fa piacere che gli altri riconoscano le tue qualità, certo. Ma io ho fatto tutto per me stesso, che cosa pensano gli altri mi interessa il giusto. Anche perché vedo tanta gente che parla senza sapere. Anche ex giocatori, e non solo nel tennis».
Jannik Sinner è fatto della tua stessa stoffa?
«Jan si diverte a giocare a tennis. E non si accontenta mai. Vuole diventare il più forte di tutti, ma è una cosa sua, che ha dentro, non lo fa per i soldi o per altro. Mi sorprende spesso, anzi quasi sempre, perché vuole continuare a migliorare: ogni giorno».
Hai incontrato e allenato tanti campioni, la prefazione al libro te la sei fatta scrivere da Maria Sharapova. Perché?
«Gliel'ha chiesto mia moglie Gaia. Io avrei potuto farla fare a tanti, Maria ha risposto con entusiasmo: «Per Riccardo la faccio volentieri. Quanto tempo ho?». Gaia le ha detto, qualche giorno, dopo dodici ore mi è arrivata sul telefonino, mentre ero al ristorante al Giglio. Abbiamo iniziato a leggerla e mi sono commosso. Maria aveva visualizzato, quindi le ho scritto: Maria, ti richiamo dopo perché sto piangendo».
Rimorsi?
«Di errori ne ho fatti tanti»
Non continuare ad allenare Djokovic?
«No, perché lui ha fatto un percorso perfetto, è arrivato al massimo, ancora oggi abbiamo un ottimo rapporto. Poi tutti gli errori che ho fatto sono serviti, quindi non rimpiango nulla».
Che cosa ti manca?
«Un torneo dello Slam. Spero di vincerlo con Jannik».
Solo uno?
«Magari anche tre o quattro. Sai com' è». -
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