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Cesare Martinetti per "La Stampa"
La crisi? Un momento esaltante per chi ha idee e talento. Nelle accademie, quasi sempre ignorate dai circuiti ufficiali, questa vitalità si vede e porta quell’inconfondibile «codice genetico» dell’arte italiana che andrebbe difeso con uno spirito «anti-rottamazione», tanto per tenerci sul lessico dei tempi. Anche se i tempi sono difficili, anzi «forse i peggiori», per i nostri musei d’arte contemporanea, a cominciare da Rivoli («il modo cui è stato abbandonato dalle istituzioni è una vergogna») che fu il primo e, senza offesa per gli altri, il più bello di tutti.
Quanti temi e quanti spigoli escono in una conversazione con Vincenzo Trione, salernitano, 42 anni, critico, docente di arte e media allo Iulm di Milano, direttore di Valencia 09, curatore di varie mostre in Italia e all’estero. È l’uomo a cui il ministro Franceschini ha affidato il Padiglione Italia della Biennale di Venezia sfidando gallerie e curatori che hanno sfogato i malumori in Rete in un velenoso tamtam: «Inadeguato». Lui è andato avanti senza rinunciare al suo modello («Non sono un curatore professionale né un allestitore, vorrei rimanere dentro la tradizione dei critici: Longhi, Calvesi, Argan, Celant») e al suo metodo, rintracciabile nell’ambizioso saggio uscito da Bompiani (Effetto città) dove pittura-scultura-fotografia-video-cinema si intrecciano su uno sfondo letterario.
Professor Trione, il suo progetto si chiama «Codice Italia». Che significa?
«L’arte contemporanea in Italia ha un fortissimo codice genetico che sa distinguersi dalla piatta esterofilia, si esprime col bisogno di guardare dietro di sé e prescinde dalle proposte alla Cattelan, specchio di un tempo senza memoria, provocazioni effimere da pubblicitari come Oliviero Toscani. Un codice che emerge da un lavoro difficile e solitario, senza nostalgie o passatismi».
Per realizzare questa idea lei ha selezionato quindici artisti italiani di varie generazioni. Cosa gli ha chiesto?
«Di realizzare un’opera nuova sul tema della reinvenzione della memoria e di esporre il proprio atlante della memoria in cui ciascuno deve svelare cosa c’è dietro il proprio lavoro, i riferimenti culturali, le letture, i film, l’autoanalisi».
Anche la scelta dei quindici è stata oggetto di pesanti critiche nei suoi confronti. Quali criteri ha usato?
«So bene che la Biennale è un’occasione per un artista, le sue quotazioni salgono e il fatto che io abbia scelto senza passare dal filtro delle gallerie ha dato fastidio. Ma ho ragionato come istituzione a prescindere dal mercato. La Biennale è un momento istituzionale di ricerca e innovazione. Ho messo insieme giovani e vecchi dimenticati. Ed è stata anche un’occasione per lavorare su aree geografiche».
maurizio cattelan balcone di palazzo cavour
E quali sono quelle più creative?
«Napoli e Torino, ognuna di loro avrà tre artisti che rispecchiano quei codici. A Napoli una memoria arcaica fortemente connotata, Pompei e i sanniti con i loro simboli, il senso del tragico, un’apocalisse imminente, come la vita partenopea. A Torino la pulizia del lavoro, il rigore, quello stile che rivela la compostezza tipica della città e insieme quel senso di sospensione che aveva colto De Chirico».
Nessuno, tranne lei, ha ancora visto queste opere. Ce ne può raccontare qualcuna che ci faccia capire questo intreccio tra codice e memoria?
«Ne cito due. Aldo Tambellini presenterà una videoinstallazione in tre grandi schermi dove lo spettatore penserà di entrare in un paesaggio psichedelico ma tutte le forme che incontrerà saranno una rivisitazione degli studi anatomici di Leonardo: memoria rinascimentale, nuove tecnologie e cinema sperimentale. Nino Longobardi, un colonnato diviso, su ogni colonna figure pompeiane che fuggono da una catastrofe, con risme di fogli di volti con riferimenti storici, da Pompei alla Fosse Ardeatine».
Questo suo codice vuole anche essere una lettura dell’Italia di oggi?
«È una mostra antirottamazione se per rottamazione si intende cancellare ciò che è stato fatto dai padri. Io credo che la Biennale abbia l’obbligo di preservare l’Italia e presentarla agli occhi del mondo».
Lei dice che la crisi è una grande occasione creativa ma intanto la crisi si sta mangiando i musei d’arte contemporanea.
«Forse è il momento peggiore. Rivoli è una vergogna, nonostante la buona volontà della direttrice Beatrice Merz lasciata letteralmente senza mezzi. E vorrei anche sapere in quali condizioni si trovano le opere della collezione. In Italia l’investimento dei privati è molto debole, salvo eccezioni tipo la Fondazione Sandretto di Torino. E tutti i musei sono in difficoltà, il Mart di Rovereto, il Macro di Roma, il Madre di Napoli. La verità è che nessuno di loro riesce a integrarsi fino in fondo con le realtà cittadine e i numeri sono imbarazzanti».
statua zidane materazzi al pompidou
Il problema però è anche l’arte contemporanea, spesso incomprensibile. Per Renoir o Chagall si muovono migliaia di persone; per travi di metallo, sacchi di juta e pietre sparse sul pavimento no.
«Certo, l’arte contemporanea è difficile, per questo bisogna presentare le mostre come una forma di racconto, costruire una drammaturgia visiva e accompagnare il visitatore. Si fa nel mondo: al Pompidou di Parigi, alla Serpentine di Londra, al Reina Sofia di Madrid, all’Hamburger Banhof di Berlino e sono pieni di gente. Bisogna saper scegliere gli artisti e anche saperli orientare senza la paura di rivolgersi al grande pubblico. È quello che ho cercato di fare io con il Codice Italia. Vedrete e giudicherete».
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