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FLASH! - OGNI GIORNO, UNA TRUMPATA: NON SI SONO ANCORA SPENTE LE POLEMICHE SULL'IDEA DI COMPRARSI…
Marco Mensurati per “La Repubblica”
Non chiamatelo Dream Team. Anzi sì. Perché se è vero che la nazionale americana di basket non arriva qui a Rio con tutte le sue stelle, mancheranno per nominarne solo un paio LeBron James e Steph Curry, è anche vero che, sulla carta, tra le squadre qualificate non c’è nessuno, nemmeno la Spagna o l’Argentina, che sembra davvero in grado di impedirle di portare a casa il suo terzo oro consecutivo.
Sarebbe il sesto nelle ultime sette edizioni, tanto per quantificare un dominio atletico e tecnico che è stato interrotto solamente dalla disgraziata spedizione di Atene nel 2004. Che poi, a ben guardare, fu il momento esatto in cui ebbe inizio la seconda era del Dream Team, quella firmata da Mike Krzyzewski (il coach) e Jerry Colangelo (il boss).
La leggenda vuole che all’indomani del disastro greco — dove la nazionale Usa finì terza dietro Argentina e Italia — Colangelo abbia accettato di prendere quello che per la stampa era diventato il “Nightmare team”, a un’unica condizione: «Fare le cose secondo la mia filosofia». Vale a dire: «Le squadre vincenti si fanno con giocatori forti e complementari, non con i migliori nomi sulla piazza». Gli diedero retta, e vennero, quasi automaticamente, gli ori di Pechino e Londra.
Ecco, quella che è stata presentata ufficialmente ieri risponde perfettamente a questa filosofia. Anche se la qualità, grazie a pezzi da novanta come Kevin Durant, De Marcus Cousins, Draymond Green e Kyrie Irving, non manca nemmeno in termini di valori individuali.
Stando a quello che si è visto negli ultimi mesi, l’unico rischio per gli Usa è che i giocatori si mettano nei guai da soli, affrontando con troppa leggerezza un torneo dove motivazioni e stato d’animo hanno un ruolo primario. Il rischio è molto più concreto di quanto non si possa pensare.
Nei giorni scorsi l’intera squadra è stata distratta dall’inevitabile polemica nata dopo che il resto della spedizione Usa ha saputo che il Dream Team avrebbe alloggiato non nel malmesso villaggio olimpico, ma nello yacht “Silver Cloud” messo a disposizione dalla Cisco e ormeggiato al porto di Rio: 196 metri di lusso che possono ospitare fino a 400 persone.
«La nazionale di basket Usa — ha provato a placare gli animi l’ufficio stampa Craig Miller — non alloggia nei villaggi olimpici dall’edizione del 1988», a Seul. Anche se non molto olimpica, insomma, la scelta non sarebbe nulla di nuovo.
Neanche il tempo di abbassare i toni, che un nuovo caso è esploso a turbare gli animi: tre giorni fa, Draymond Green ha postato su Snapchat una foto del suo pene. Dopo dieci minuti l’ha cancellata, ma nel frattempo aveva fatto il giro del mondo e Green — reduce da una rissa che per poco non gli costava la galera — ha dovuto chiedere scusa: «Siamo tutti a un click di distanza dall’errore», ha twittato.
La cosa ha suscitato ilarità, qualcuno nel Villaggio ha sostenuto che «si sia trattato di una mossa psicologica degli americani: vista la foto adesso gli avversari entreranno in campo intimoriti», ma ha anche preoccupato non poco lo staff americano: «Le Olimpiadi sono l’evento sportivo più importante — dice come farebbe un papà, Krzyzewski — e noi dobbiamo affrontarlo come si conviene, mostrando rispetto per tutto e tutti, e dobbiamo rimanere concentrati».
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