Giuseppe Salvaggiulo per “la Stampa”
paolo bellini
Da ieri è un po' meno fermo l'orologio della stazione di Bologna che segna ancora le 10,25 del 2 agosto 1980.
La sentenza del tredicesimo processo soffia tre sbuffi di verità sulla strage più sanguinosa e spregevole della storia repubblicana: la mano non è di imberbi neofascisti ebbri di spontaneismo, ma di un sodalizio di tre sigle della galassia nera: nuclei armati rivoluzionari, terza posizione e avanguardia nazionale; a muoverla, armarla e finanziarla in chiave antidemocratica un network eversivo composto da P2, servizi segreti, politici di estrema destra, alti funzionari pubblici; a ostacolare le indagini un'incessante opera di depistaggio anche istituzionale, proseguita persino durante questo processo, a quasi 42 anni di distanza.
paolo bellini
«Strage di Stato», hanno detto nella requisitoria i magistrati, come colpo di coda 2.0.
della strategia della tensione cominciata nel 1969 in piazza Fontana. Sulla pelle di oltre 200 feriti e 85 morti, il più giovane dei quali aveva solo 3 anni. A ordirla, secondo la sentenza e, fermo restando, la presunzione di non colpevolezza fino a quella definitiva, un'entità che non è più suggestione sfuggente da vulgata pistarola. Ora ci sono date, testimonianze, conti correnti, prove. Nomi e cognomi.
Il principale di questo processo è stato l'ambiguo Paolo Bellini, condannato all'ergastolo come quarto esecutore materiale dopo Ciavardini, Mambro, Fioravanti e (in primo grado) Cavallini. Ladro, truffatore, assassino, sicario di 'ndrangheta, collaboratore di giustizia, Bellini era stato già indagato, ma ai tempi se l'era cavata grazie al viaggio in auto per una vacanza in montagna. Alibi familiare ora smentito dall'ex moglie, addetti dell'hotel e video girato da un turista alla stazione in cui compare proprio lui, giovane e baffuto. «Sono solo chiacchiere!», proclamava ancora ieri prima della camera di consiglio.
ex moglie paolo bellini
Gli altri due imputati condannati (Segatel, ex carabiniere, e Catracchia, immobiliarista legato ai servizi segreti), sono solo satelliti del secondo livello del network stragista. Gli altri ancora sono imputati fantasma: non processabili perché morti, ma moralmente condannati. I capi della loggia segreta P2 Licio Gelli e Umberto Ortolani, il senatore missino Mario Tedeschi, il capo dell'ufficio affari riservati del ministero dell'Interno, Federico Umberto D'Amato.
Mai come in questo caso, la motivazione spiegherà i come e i perché.
giusva fioravanti francesca mambro 1
Il processo ha una storia quantomeno singolare. Nasce dal cocciuto lavoro dell'associazione familiari delle vittime e vive grazie a un'indagine da cold case, dopo la provvidenziale avocazione della Procura generale di un fascicolo frettolosamente archiviato. Lo spunto è un documento di Gelli riemerso dagli atti di altri processi (P2, Banco Ambrosiano, neofascismo Anni 70).
Si chiama «documento Bologna» e contiene cifre, date e riferimenti bancari. Quanto basta per risalire ai 5 milioni per finanziare la strage. Il resto è nei 120 faldoni disseminati in quattro stanze della Procura generale e digitalizzati in un paio di terabyte, circa 3000 cd-rom. Il processo si è snodato in 67 udienze durate oltre 400 ore.
licio gelli
La camera di consiglio è stata più breve del previsto. La convocazione improvvisa non ha impedito a centinaia di persone, per lo più parenti delle vittime e sopravvissuti, di gremire l'aula del tribunale. La sentenza è stata accolta in silenzio. Niente applausi, urla, invettive. Solo lacrime e abbracci. «Giustizia resa a vittime, familiari, collettività», il commento della procuratrice generale Lucia Musti. «Si va avanti», dice Paolo Portoghesi, presidente dell'associazione vittime. Non solo per l'inevitabile appello degli imputati, ma anche per la rimessione alla Procura, decisa dalla Corte, della posizione di sei testimoni.
Tra loro tre poliziotti della Scientifica, per depistaggi attuati anche in questo processo periziando una vecchia intercettazione e storpiando la parola «aviere» (riferibile a Bellini) in «corriere», che allude all'alternativa pista palestinese.
Federico Umberto D'Amato
Federico Umberto D'Amato MARIO TEDESCHI
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