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“The Last of Us Remastered” è un videogioco post-apocalittico uscito all'inizio di quest'anno su PlayStation 4, con il quale è possibile utilizzare la modalità Foto, che blocca il gioco e permette ai giocatori di scattare, modificare e condividere le fotografie delle partite.
Il Time ha incaricato il fotografo di guerra Ashley Gilbertson di utilizzare la modalità Foto per documentare i protagonisti del gioco mentre combattono per sopravvivere in un mondo infestato da zombie. Gilbertson racconta la sua esperienza.
Ho trascorso un paio di giorni all'interno del corpo di un sosia incazzato di Hugh Jackman.
Time mi ha chiesto di lavorare come fotografo all'interno del videogioco “The Last of Us Remastered”, un gioco iperviolento in cui un giocatore deve uccidere le persone infettate da un virus. Il gioco, che riproduce la realtà in modo quasi perfetto, dà la possibilità ai giocatori di usare una macchina fotografica per immortalare le proprie azioni.
Il mio approccio è stato quello di aspettare, in ogni livello, il momento in cui avrei ottenuto la migliore fotografia. È lo stesso modo che adotto nella vita reale. Tuttavia, nella realtà virtuale ho trovato maggiori difficoltà.
Sono stato coinvolto in decapitazioni, ho sparato in faccia alle persone a bruciapelo e gli ho lanciato bombe da vicino. Avevo nodi allo stomaco, la vista offuscata e mi sentivo sopraffatto. Durante la guerra vera, ho sempre avuto in mano una macchina fotografica, non una pistola.
In genere scattavo tra le 8 e le 10 fotografie al giorno. Ho pensato che potevo fare la stessa cosa con questo incarico. Mi sbagliavo. In combattimento, devo essere in posizione, pronto per uno scatto, e ho solo un centesimo di secondo per farlo prima che la situazione cambi.
C’è un solo momento, un fotogramma. All'interno del gioco, invece ho potuto bloccare il tempo. Ho avuto tempo illimitato per sperimentare e provare lo scatto da diverse angolazioni, profondità di campo, esposizioni e lenti. L'approccio ad altissima concentrazione con cui lavoro nel campo si perde all'interno di una console di gioco.
Quando lavoro sono sempre alla ricerca di scene particolari e nel gioco mi sono trovato a fare la stessa cosa. Quando sono passato al bianco e nero, ho trovato una scena che mi ha ricordato l'immagine “Lebanon” di Paolo Pelegrin. Un’altra mi ha ricordato la Pietà di Michelangelo.
Nessuno dei personaggi del gioco mostra disagio. Per me è molto strano. È uno scenario post-apocalittico, con pochi umani rimasti in lotta per la sopravvivenza della loro razza! Per vincere un giocatore deve essere estremamente violento. I personaggi del gioco generalmente sono indifferenti e le loro emozioni imitavano quello degli zombie che stavano uccidendo. Mentre a me interessa un tipo di fotografia con più coinvolgimento emotivo, dove la reazione umana è il racconto di una storia.
Alla fine guardare la carneficina era diventato più facile. Ho lasciato l'esperienza con l’idea che familiarizzarci e desensibilizzarci alla violenza ci può trasformare in zombie. La nostra mancanza di empatia e mancanza di volontà di impegnarci con coloro che sono coinvolti nella tragedia, deriva dal comfort con il trauma che queste persone stanno vivendo.
È il più grande problema che affronto come fotografo. Come possiamo raggiungere un pubblico abituato a vedere persone che muoiono in massa in guerra, come conseguenza di giochi come questo? Ho cercato di trovare approcci alternativi al tema negli ultimi sette anni, con scarso successo. Il lavoro di cui sono più orgoglioso, “Bedrooms of the Fallen”, esamina le camere da letto di soldati uccisi in guerra.
Alla fine di questa esperienza ho imparato due cose fondamentali: il lavoro che faccio è un antidoto al tipo di intrattenimento che questo gioco rappresenta e che faccio schifo con i videogiochi.
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