DAGOREPORT – MATTEO FA IL MATTO E GIORGIA INCATENA LA SANTANCHÈ ALLA POLTRONA: SALVINI, ASSOLTO AL…
Articolo di Indro Montanelli per il “Corriere della Sera” – 16 aprile 1967
Credo che Totò sia morto un po’ anche per l’angoscia di morire. Era ossessionato da questo pensiero, ma aveva il buon senso di accorgersene e il buon gusto di scherzarci sopra. Portava la sua paura come i pavoni portano la coda e i soldati la bandiera, ostentandola, magnificandola, e facendone argomento dei più pittoreschi racconti, come quello della sua fuga in campagna al tempo dei bombardamenti di Roma.
Per un mese rimase acquartierato in un cascinale remoto, vicino a quello che a lui sembrava un rudere dell’urbe augustea. Un giorno, andato a esplorarlo, ne fu respinto da due sentinelle: quel rudere era una polveriera.
A distanza di venti e più anni, quell’avventura lo riempiva ancora di sgomento e indignazione: «Capite in che paese si vive? Ti piantano una polveriera sotto il letto, e manco te ne avvertono. Tu credi di aver dormito per un mese abbracciato a tua moglie, invece hai dormito abbracciato alla morte. E quando te ne accorgi, non ti rifondono nemmeno i danni». «Che danni?». «Alle coronarie».
Alle coronarie dedicava cure particolari. Anche il lavoro in teatro e in cinematografo lo selezionava in modo che le coronarie non vi restassero coinvolte. «Sono disposto a darvi tutto – diceva ai registi – anche la commozione, anche la concitazione, ma solo da qui in su», e si toccava la gola.
Pretendeva di non essersi mai «immedesimato» in una parte, appunto per lasciare a riposo il cuore. Gli bastava il viso, quel viso – come diceva il povero Marotta – dalla mascella deragliata, che sembrava messo lì apposta, con la sua mestizia, a far da contrappunto alla comicità delle smorfie e delle battute, e a sottolinearla.
Mai uomo è stato più sfigurato dalla sua «maschera» .Il pubblico ha sempre visto in Totò un mimo plautino, estroverso, insistito, caricaturale, rumoroso, gesticolante, popolaresco. E invece era una creatura fragile, mite, schiva, delicata, di vena elegiaca e di tocco signorile.
Tutti sanno della sua mania araldica, e molti ne hanno riso. Doveva ricorrere a biglietti da visita maggiorati per contenere tutt’i suoi nomi e titoli: Focas Flavio Angelo Ducas Comneno de Curtis di Bisanzio Gagliardi Antonio, Altezza Imperiale, Conte Palatino, Cavaliere del Sacro Romano Impero, e non so cos’altro. Non so nemmeno se tutti questi blasoni gli spettassero effettivamente e come fosse riuscito a farseli riconoscere. Ma so di sicuro che fuori della scena li portava con elegante disinvoltura e assoluta naturalezza.
In privato, Totò conduceva un’esistenza da nobile decaduto. E non credo che ci fosse nulla di recitato. Il suo appartamento ai Parioli era spazioso e moderno, ma trapunto di
stemmi, gremito di cimeli storici, e senza pacchiane ostentazioni di lusso. Lì Totò («Altezza» per il cameriere e l’autista, «Antonio» per la moglie e gli amici) riceveva i visitatori e spesso li tratteneva a colazione e a pranzo, ma pochi alla volta perché le grandi tavolate e le conversazioni chiassose gli davano fastidio.
Fra questi ospiti non c’era mai o quasi mai gente di cinema o di teatro, con cui trattava a parte, considerando il loro sodalizio una pesante servitù del suo lavoro. Era sempre vestito in maniera impeccabile ed esigeva che anche noi lo fossimo, sebbene da un pezzo i suoi poveri occhi non vedessero più che le ombre. Sua moglie, la bellissima Franca Faldini, lo assecondava da esperta padrona di casa.
La tavola era sempre magnificamente imbandita, il servizio inappuntabile, le pietanze eccellenti, i vini scelti, sebbene Totò fosse quasi astemio e mangiasse come un uccellino. Una volta gli portai Augusto Guerriero, ch’egli desiderava conoscere e che a sua volta desiderava conoscerlo. «Molto onorato», disse Totò nello stringergli la mano. «L’onore è mio» rispose Guerriero. «No, è mio» ribattè Totò. «No, mio» insistè Guerriero. Per una decina di minuti seguitarono a contendersi l’onore. Poi, da buoni napoletani, si accorsero della comicità della scena e risolsero, l’onore, di dividerselo a mezzo.
Quella sera la conversazione fu particolarmente brillante e l’umore di Totò si fece addirittura euforico, quando Guerriero tessè l’elogio della sedentarietà. «Lo vedi? – diceva Totò a Franca – lo senti?». Capimmo subito che c’era sotto una polemica coniugale. Franca ha la passione dei viaggi e sognava di cavarsene la voglia con suo marito che per lei aveva comprato anche un panfilo, ma non c’era mai salito. Ci lasciava andar lei, con l’ordine al comandante di cabotare in modo che lui potesse vederlo dalla strada su cui lo seguiva in macchina a venti all’ora.
«Era una barca bellissima – sospirò Franca – ci si poteva andare anche in America». «Sì, in America – fece Totò – e se incontravamo Ines?». «Che Ines?». «Il tifone. Non avete mai sentito parlare del tifone Ines? Gesù, io me lo sogno anche di notte: una cosa spaventosa. Eppoi, perché dovrei andare in America? Prima di Colombo, nessuno ne aveva mai sentito il bisogno, e ora tutti lo considerano quasi un dovere. Ma questo che cos’è? Io di doveri ne ho uno solo: sopravvivere, che è già così difficile da assolvere... Dice: ma l’America è la modernità, il progresso... E con ciò? A me il progresso e la modernità non mi piacciono. Se un giorno dovessi risalire sul trono di Bisanzio, farei una legge apposta contro queste diavolerie».
Scherzava, ma non mentiva, e anche a quella faccenda del trono alluse in tono del tutto naturale, come a cosa possibilissima. Totò era un reazionario autentico, nostalgico di una società ordinata e di uno Stato paterno. Non per nulla la sua ambizione, da ragazzo, era stata quella di diventare funzionario di polizia, tanto che sua madre lo chiamava «‘o spione». In realtà il suo sogno non era tanto di spiare, quanto di arrestare, le manette rappresentando ai suoi occhi il supremo simbolo dell’autorità. Ma forse gli sarebbe piaciuto metterle solo per poterle togliere.
Era generosissimo. Ha profuso una buona aliquota del suo patrimonio in elemosine e beneficenza, ma di nascosto e sotto banco Focas Flavio Angelo Ducas Comneno de Curtis di Bisanzio Gagliardi Antonio, Altezza Imperiale, Conte Palatino, Cavaliere del Sacro Romano Impero, un po’ per eleganza, un po’ per paura del fisco.
Nascondeva anche il suo superstizioso terrore dei gatti, temendo d’invogliare la gente a perseguitarli, cosa che da noi accade anche senza bisogno di incentivi. Non gli piaceva lavorare, specie per il cinematografo, e poche volte si è appassionato a una «parte». Ma la imparava con scrupolo anche se poi, una volta sul «set», si lasciava prendere dall’uzzolo dell’improvvisazione, quasi sempre felice; e rispettava gli orari con rigoroso zelo.
I suoi compagni d’arte dicono ch’era prepotente, che trovava sempre il modo di occupare la scena da solo, di rubare la battuta a tutti e di metterli in ombra. Può darsi, ma non ho mai conosciuto un attore che non lo facesse, o non tentasse di farlo. A lui riusciva facilmente perché ne aveva la forza. In compenso, era adorato dai piccoli, dai subalterni, dalle comparse con cui era sollecito e prodigo di mance come un bonario re coi suoi paggi. Però non dava confidenza a nessuno, esigeva il titolo di «altezza» e, una volta ripresi i suoi panni di Focas Flavio Angelo Ducas Comneno de Curtis di Bisanzio, voleva essere trattato non più da Totò, ma da conte palatino e cavaliere del Sacro Romano Impero.
Di se stesso attore parlava con sobrio distacco, senza disprezzarlo, ma neanche esaltarlo e attribuirgli esoterici e metafisici significati. «Avrei preferito lavorare al tempo del cinema muto – confessava – perché tutto quello che ho da dire mi vien detto meglio con la faccia che con la parola. A questa faccia ne hanno attribuite di tutt’i colori. Una volta hanno scritto perfino che c’è dentro il “tragico quotidiano dell’alienazione”.
Guardatemi bene: voi ce lo vedete? Io, no. La mia faccia non ha altra tristezza che quella di un mento allungato, di un naso torto, e della vita, che non è triste, ma nemmeno allegra. È quello che è: un miscuglio di tristezza e di allegria, cioè un grottesco. Ma io sono contento di starci, nella vita, e me la difendo come posso, cercando di soffrire solo dalla gola in su e mai dalla gola in giù per non affaticare le coronarie. Io le difendo, le mie coronarie, e voglio guadagnarmene la gratitudine. Ogni sera, prima di andare a letto, le interrogo: “Siete contente, coronarie, di Totò? Vi tratta o non vi tratta con tutt’i riguardi?”». Purtroppo a questi riguardi le sue coronarie dovevano essere insensibili perché sono state proprio esse a tradirlo. Ma forse, in fondo in fondo, lui stesso se l’aspettava. È morto di paura di morire, Totò.
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