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Video di Veronica Del Soldà per Dagospia
Foto di Luciano Di Bacco per Dagospia
Danilo Maestosi per "il Messaggero"
In pochi altri paesi, forse in nessuno come Israele il senso del tempo è costruito su un continuo accavallarsi di passato e futuro. Terreno di coltura ideale per gli artisti di oggi costretti come a destreggiarsi tra gli ambigui confini del tempo per strappare una patente di autori contemporanei. Con una storia millenaria alle spalle, uno stato che ha appena 65 anni di vita e un futuro pieno di ombre e minacce ma tutto da costruire Israele è un fertile serbatoio di proposte creative cresciute al riparo dei condizionamenti del mercato.
Un vuoto che dà sapore di evento alla mostra del Macro a Testaccio (fino al 17 marzo), benedetta con una medaglia dalla presidenza della Repubblica italiana. In passerella ventiquattro artisti israeliani di varie generazioni e vari linguaggi: una buona metà vive e lavora all'estero e rappresenta una novità assoluta per il pubblico romano.
Ad offrire alle loro opere un forte denominatore comune è un titolo Israele now. Reinventing the future, al quale la curatrice Micol Di Veroli ha già impresso un sapore programmatico di sfida.
VERSO IL DOMANI
Ma è una proiezione in avanti che si trascina appresso un senso profondo della peculiarità della propria cultura e delle proprie radici. Alla spiritualità e al misticismo dell'ebraismo dell'Est europeo si ricollega anche l'allestimento dei due padiglioni firmato da Joram Orvieto: una rete di cavi per l'irrigazione usati nei kibbutz pende dal soffitto e lasacia cadere a terra piccole luci, a simulare l'albero della saggezza che pianta le radici nel cielo ma cala a terra i suoi rami.
Ma il richiamo al mistero della natura e del divino impregna anche la foresta che Yehudit Saportas proietta sul muro e anima di squarci improvvisi di colore. Oppure i paesaggi di deserto brumoso e orizzonte infinito che Gal Weinstein dipinge incollando grumi di lana d'acciaio.O ancora quelle porte di carta disegnate a pastello che Yifat Bezalel spalanca su una sorte di vortice angelico.
C'è anche però chi la storia la misura ancorandosi al presente di capovolgimenti visionari e irridenti. Come Lea Golda Holterman che in un serie fotografica sovraccarica di eros camuffa, traveste o mette a nudo corpi, volti e pratiche di devozione degli ebrei ultraortodossi. O come Adi Nes che distilla in pose di stridente femminilità l'immaginario macho dei militari israeliani. Per altri ancora il futuro si ammanta di profezia: ecco così Guy Zagursky raccogliere in una vetrina illuminata da una luce azzurrina il plastico di un'anonima città di casermoni che un sistema di specchi dilata a inghiottire l'infinito.
Ecco Nahum Tevet comporre in terra un labirinto di mobili e solidi geometrici ad evocare l'algida e anonima razionalità di architettura e design d'arredo. Due opere rimandano invece al linguaggio della scienza. Michel Rovner disegna un inquietante allegoria dell'irrilevanza umana, proiettando un'immagine da miscoscopio in cui una folla di omini rossi sostituisce il brulicare dei batteri. Ubi Nir si trasforma in demiurgo crudele estraendo suggestive forme astratte dal cappello di una medusa che inonda con iniezioni di sangue.
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