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Paolo Griseri per “la Repubblica”
La famiglia Ferrero Il fratello Giovanni il padre Michele la madre Maria Franca la vedova Luisa
Quella mattina la ricorda benissimo: «Come se fosse oggi e invece era un giorno del 1963. Il signor Michele era lì, nell’atrio della fabbrica. Insieme a lui c’era la moglie e c’erano anche il signor Giovanni e la signora Piera, la vedova del fondatore. Erano intorno alla carrozzina dove piangeva Pietro, il nuovo nato dei Ferrero. Lo avevano portato all’ingresso dello stabilimento perché tutti noi dipendenti, andando al lavoro, potessimo vedere il bambino».
Una scena un po’ ottocentesca, non le pare? «A noi non pareva. Era invece una scena che mi aveva dato molta sicurezza. Il signor Michele diceva: “Questo è mio figlio. Lui è il futuro dell’azienda”. L’idea che l’azienda avesse una prospettiva, rassicurava tutti noi». Perché l’azienda, i suoi dipendenti e la città erano una cosa sola. La Ferrero degli anni Sessanta ad Alba, come la Olivetti dello stesso periodo a Ivrea, erano aziende-comunità, esempi di welfare del territorio, patti di mutuo soccorso tra una città e la sua azienda. La Ferrero e Alba sono oggi l’unico binomio sopravvissuto nel terzo millennio.
Antonio Buccolo, oggi ottantenne, è uno dei testimoni dell’epopea Ferrero fin dalla nascita di quel modello: «Sono entrato in azienda nel 1954. Avevo diciannove anni, appena diplomato in ragioneria». Che ci faceva un ragioniere in una fabbrica di cioccolato? Buccolo sorride: «In quel periodo ad Alba tutti studiavano ragioneria, perché era l’unico diploma possibile», l’unico liceo a disposizione nel circondario.
Così entravano tutti ragionieri e poi ci pensava la ditta a farli studiare davvero: «Io ero stato assunto al centro di calcolo. L’informatica non era ancora arrivata dalle nostre parti, lavoravamo con le schede perforate. A seconda dell’allineamento dei fori, infilando una specie di ferro da maglia si sollevavano tutte le schede di un certo argomento. Un sistema rudimentale. Allora il signor Michele ci mandò a studiare alla Olivetti di Ivrea e a Milano perché imparassimo l’informatica».
Che padrone era Michele Olivetti e perché quel modello, apparentemente datato è ancora in piedi oggi, quando la Ferrero è diventata una multinazionale con 53 fabbriche nel mondo? A lato dello stabilimento c’è una grande stazione di autobus. E anche oggi, giornata festiva, il fumo bianco che esce dalla ciminiera sulle rive del Tanaro testimonia che qualcuno lavora. Sotto una pensilina è parcheggiato uno degli autobus aziendali.
Michele Ferrero insieme ai figli Giovanni (a sinistra) e Pietro (a destra)
«Quegli autobus — spiega il sindaco di Alba, Maurizio Marello — sono uno degli ingredienti fondamentali del modello Ferrero. L’azienda garantisce il trasporto in stabilimento a tutti i dipendenti, anche a quelli che abitano nelle frazioni più lontane». Si favoleggia che il servizio arrivi «addirittura fino a Millesimo», ultimo comune piemontese prima del confine con la Liguria.
«Sembra una stupidaggine ma l’autobus è stato decisivo», racconta il dipendente Buccolo. E spiega: «Quanti genitori dei nostri paesi avrebbero mandato con tranquillità la loro figlia a lavorare a Torino negli anni Sessanta? Avrebbe dovuto prendere la bicicletta, raggiungere la stazione, salire su un treno, arrivare a lavorare e la sera rifare la strada al contrario. Con tutti i pericoli del caso. Con la rete dei trasporti aziendali, la Ferrero risolveva il problema e consentiva anche alle ragazze di andare a lavorare».
Il sistema ha anche un secondo vantaggio. Lo sintetizza Bruno Ceretto, uno dei signori del vino di queste parti: «Consente alle famiglie di continuare a vivere in campagna lavorando nella fabbrica e coltivando i campi. Questo ha salvato molte vigne».
Possibile che in tanti anni nessuno abbia mai provato a rompere l’idillio tra azienda e dipendenti? «Le ondate della contestazione degli anni Settanta si sono sentite anche da noi ad Alba », ammette Buccolo. Ma aggiunge subito: «Si sono fatti scioperi e se ne fanno ancora. Ma mai nessuno ha cercato di far andare in malora l’azienda. È troppo importante per tutti».
Tanto importante che nel 1994, quando l’alluvione del Tanaro si portò via mezza fabbrica spruzzando nel fango decine di migliaia di tartallegre e ranoplà, le sorpresine degli ovetti Kinder, i dipendenti lavorarono gratis a spalare fango e a rimettere in sesto la fabbrica: «Quella mattina Pietro Ferrero salì su un carro e disse: “Abbiamo deciso di ripartire, possiamo farcela”. Dopo un mese tornammo a produrre».
Non ci sono solo episodi da libro Cuore a spiegare il patto di mutuo soccorso. C’è anche un premio da 1.700 euro all’anno. Ci sono gli asili per i figli dei dipendenti e la gita annuale gratuita per i pensionati. C’è soprattutto «la Fondazione », il luogo di ricreazione, studio e assistenza, un club riservato a chi ha trascorso più di 25 anni in fabbrica.
Un luogo aperto alla città in occasione di mostre e concerti. Per tutto questo il patto tra azienda e dipendenti funziona ancora oggi. E per questo domani mattina, a partire dalle 8, comincerà il pellegrinaggio degli albesi davanti ai cancelli della fabbrica, a fare la fila per salutare il signor Pietro. «Molti di noi — conclude Buccolo — tengono in casa la suo foto nel giorno in cui ci ha consegnato il diploma di fedeltà aziendale».
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