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Sissi Bellomo per http://www.ilsole24ore.com
Non c’è pace per i mercati petroliferi. Sotto il tiro della speculazione, ormai arroccata su posizioni ribassiste, il prezzo del barile è stato abbattuto a nuovi minimi da dodici anni: 26,19 dollari nel caso del Wti. Il future per consegna febbraio, in scadenza ieri, ha poi concluso la seduta con un ribasso del 6,7% a 26,88 $, mentre il Brent per marzo ha chiuso a 27,88 $/barile (-3,1%).
Difficile identificare che cosa abbia innescato l’ultima ondata di vendite. Per i mercati in generale è stata una giornata nerissima, con i listini azionari che a livello globale sono entrati tecnicamente in «bear market»: l’Msci World Equity Index, ai minimi da due anni e mezzo, è sceso di oltre il 20% dal picco dello scorso maggio. Se non si inverte la rotta, sia per le Borse che per il petrolio questo rischia di essere il peggior mese da ottobre 2008, quando Lehman Brothers era appena fallita.
re salman al saud arabia saudita petrolio
Nelle ultime settimane per il petrolio - e forse anche per tutto il resto - non è cambiato molto a dire la verità. Ma gli investitori - in gran parte gli stessi che un tempo spingevano il barile verso 150 dollari - ora hanno in mente quota 20 o forse addirittura 10 dollari. E difficilmente cambieranno idea finché non vedranno un forte crollo dell’offerta petrolifera (più improbabile che a riequilibrare il mercato sia un boom di domanda: c’è stato nei mesi passati, ma si sta già afflosciando).
la produzione di petrolio americano
I ribassisti non si sono lasciati influenzare neppure dal riemergere dell’ipotesi di un vertice straordinario dell’Opec. Secondo indiscrezioni raccolte dalla agenzie di stampa internazionali, il Venezuela è tornato alla carica, inviando una lettera agli altri membri dell’Organizzazione. Finora non avrebbe ricevuto risposte ed è opinione diffusa che anche stavolta, come già diverse volte in passato, Caracas non riuscirà a raccogliere consensi per un intervento a sostegno dei prezzi. Eppure qualcosa forse si sta muovendo.
L’Arabia Saudita e gli altri Paesi Opec del Golfo Persico hanno sempre detto che avrebbero accettato tagli di produzione solo in collaborazione con produttori esterni all’Organizzazione. L’Oman nei giorni scorsi si è detto pronto a ridurre l’output del 5-10%, ossia fino a 100mila barili al giorno, mentre ieri il russo Vagit Alekperov, ceo della compagnia privata Lukoil, ha previsto un calo del 2-3% della produzione di Mosca (che nel 2015 ha raggiunto il record post-sovietico di 10,7 milioni di bg). «L’industria petrolifera è vicina alla soglia di sopravvivenza - ha dichiarato il manager a Reuters Television - Noi sfortunatamente stiamo già riducendo le perforazioni».
shale oil estrazione petrolio
bacini di shale oil in america
shale oil estrazione petrolio
Altri grandi produttori non Opec hanno già rallentato il passo. Negli Usa il calo dello shale oil è iniziato lo scorso aprile e minaccia di accelerare con l’aggravarsi della crisi delle società coinvolte. Metà del petrolio canadese - ben 2,3 milioni di barili al giorno, ricavati dalle sabbie bituminose - ai prezzi attuali viene ormai prodotto in perdita. In Azerbaijan già nel 2015 la produzione si è ridotta (a 0,84 mbg, il minimo da 9 anni) e lo stesso è avvenuto in Kazakhstan (-1,7% a 1,7 mbg).
Il tono delle dichiarazioni saudite intanto è leggermente cambiato. Parlando domenica dal Messico - un Paese che in passato ha partecipato a tagli congiunti con l’Opec - il ministro del Petrolio Ali Al Naimi si è detto ottimista sul prezzo del barile perché «le forze di mercato e la cooperazione tra produttori conducono sempre al recupero della stabilità».
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