DAGOREPORT - COSA POTREBBE SUCCEDERE DOPO LA MOSSA DI ANDREA ORCEL CHE SI È MESSO IN TASCA IL 4,1%…
Francesco Bonazzi per La Verità
La ditta, nell’iniziatico linguaggio di Borsa «l’Emittente », un giorno di maggio del 2015 promise: «L’idea imprenditoriale è quella di trasformare il pantalone da prodotto di necessità e di servizio a prodotto emozionale». Loro, gli investitori, anziché regalarsi l’emozione di un lussuoso paio di braghe da 250 euro, hanno comprato in Borsa azioni di Cover 50, alias Pantaloni Torino, e dopo 19 mesi hanno messo in saccoccia una perdita del 53,7%. Se si volesse spiegare la differenza tra economia reale e astrazione finanziaria, si potrebbe iniziare da Pianezza, vicino a Torino, dove mezzo secolo fa parte l’avventura imprenditoriale della famiglia Fassino (nulla a che spartire con l’ossuto Piero).
Pierangelo Fassino pantaloni cover
Nel 1968 Pierangelo Fassino inizia a produrre pantaloni e negli anni Settanta, con un secondo stabilimento ad Asti, raggiunge le 80.000 unità l’anno. Nel decennio seguente, l’azienda mantiene al proprio interno design, stile, controllo qualità e logistica, e per il resto si affida a fornitori esterni. Negli anni Novanta, la crescita è inarrestabile e si arriva a produrre 250.000 pantaloni e 70.000 capospalla, tutti per la grande distribuzione. Nel 2000, con l’ingresso in azienda del figlio Edoardo (classe 1976), comincia la produzione anche in Romania, ma la parziale delocalizzazione non basta per fronteggiare la concorrenza dell’estremo Oriente.
Le vendite di Cover calano drasticamente e nel 2006 inizia la scommessa: via i capospalla e focalizzazione sui pantaloni di lusso, da vendere con marchio proprio. Nel 2007, ai Fassino si affianca un direttore commerciale che arriva dalla moda, Mario Maran, e nasce il marchio Pt01, con il quale vengono proposti sul mercato pantaloni con lavorazione quasi da sartoria.
Narra la leggenda che proprio nell’agosto 2007, in Normandia, Barack Obama abbia comprato quattro paia di Pantaloni Torino. E che in un secondo acquisto abbia speso 400 euro per un paio di «silver chino» dal design militaresco. E di lì in poi, l’azienda è abile a far uscire sui giornali i nomi dei suoi clienti più in vista, a cominciare dal gran capo di Fca, Sergio Marchionne, che non è un modello di eleganza, per passare a re Juan Carlos di Borbone, all’ex premier giapponese Junichiro Koizumi e a Marco Tronchetti Provera.
GABRIELE BASILICO FOTOGRAFA CATTELAN IN PIAZZA AFFARI
Con l’apertura di punti vendita a New York, Tokyo e Monaco di Baviera, il marchio prende definitivamente il volo. Per spiegare quanto sia azzeccata la scelta del lusso, basta dire che Pt vende 140.000 pantaloni nel 2007, che diventano 280.000 nel 2012 e oltre 300.000 nel 2014. Il tutto mollando la produzione per la grande distribuzione già nel 2009. Nel 2014 i Fassino decidono che gli Stati Uniti sono il mercato sul quale bisogna crescere, anche se Germania e Giappone sono quelli che danno più soddisfazione, ed è allora che decidono di quotarsi all’Aim, il mercato per le piccole imprese di Borsa italiana. Il progetto va in porto nella primavera dell’anno seguente, con la consulenza tecnica della torinese Banca intemobiliare (Gruppo popolare di Vicenza).
Se si guardano i numeri di Cover 50 è impossibile non riconoscere che rappresentano un’azienda sana e in crescita costante. I ricavi del 2014 sono pari a 23,8 milioni (nel 2009 erano solo 10), l’utile lordo è di 6,8 milioni e quello netto di 4,2 milioni. Debiti non ce ne sono e ogni anno i dividendi distribuiti sono pari a 2,5 milioni. Il tutto con appena 40 dipendenti. E, nonostante i brillanti risultati, se si va a vedere a quanto ammontano gli stipendi dei Fassino, si scopre che Pierangelo, per fare il presidente, si accontenta di 70.000 euro, mentre il figlio Edoardo ne prende 90.000 per la carica di ad.
Cover 50 esordisce il 13 maggio 2015 a 18,6 euro, per una capitalizzazione di 82 milioni. I risultati a fine 2015 non sono deludenti, come invece spesso accade al primo bilancio dopo le Ipo: i ricavi salgono ancora a 24,6 milioni e il margine lordo si attesta a quota 6,2 milioni. Un anno dopo la quotazione, tuttavia, Cover 50 vale solo 54 milioni e a settembre di quest’anno, quando esce la semestrale, spuntano debiti per 5,9 milioni, mentre utili e fatturato tengono. Il titolo però continua a calare e adesso galleggia intorno agli 8,5 euro.
Che cosa è successo? Sicuramente siamo in presenza di un’azienda brillante, ma forse troppo piccola e mono prodotto per la Borsa. A luglio è andato via Mario Maran, l’artefice della svolta nel lusso, passato alle camicie di Bagutta. E certo è presto per giudicare il successo degli investimenti americani. Così come sarebbe ingeneroso addebitare all’azienda di Pianezza il fatto che in Borsa il suo titolo registri una media di 2,7 contratti al giorno, per importi medi di 6.500 euro: praticamente una miseria. La colpa è di un sistema finanziario sempre a caccia di commissioni, quotazioni tascabili di società che poi cadono subito nel dimenticatoio.
Poi, certo, gli inventori del pantalone emozionale sono stati abili a quotare la società più nota al pubblico, ma non la holding che esercita funzioni di direzione e controllo, e che ha venduto il 23% delle azioni di Cover 50 al pubblico. Per dire, l’impresa collegata romena che materialmente cuce le super braghe è rimasta fuori da Piazza affari. La holding della famiglia Fassino ha anche scorporato un immobile e ci ha messo sopra un leasing da 800.000 euro, del quale l’emittente Cover 50 è responsabile in solido. Quanto ai 20 milioni raccolti con la quotazione, 8 sono rimasti in azienda per l’espansione internazionale, ma ben 12 se li sono intascati i Fassino. Che hanno voluto premiarsi. Peccato che a oggi, vista la perdita del 55%, siano stati gli unici a guadagnarci qualcosa. Per farsi perdonare, dovranno agganciare Donald Trump.
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