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Paola Pilati per "l'Espresso"
Accumulatori di cariche, pentitevi. Collezionisti di poltrone nei consigli d'amministrazione, fate l'esame di coscienza. Recordmen dei gettoni di presenza, preparatevi a stringere la cinghia. Per chi siede negli organismi di governance di banche, assicurazioni e società finanziarie, sta per arrivare il momento della verità , e della scelta: basta incroci, l'epoca dei salotti buoni, tutti insieme appassionatamente a dividersi i posti di comando, sta per finire. Entro il 25 aprile, chi ricopre incarichi incompatibili tra di loro, deve mollarne uno, altrimenti decade da tutti.
à il dilemma di Alberto Nagel, amministratore delegato di Mediobanca e vicepresidente nelle assicurazioni Generali, di Fabrizio Palenzona, che siede nel consiglio di Mediobanca ma è anche vicepresidente dell'Unicredit, di Giovanni Bazoli, presidente del consiglio di sorveglianza di Intesa e in quello di Ubi banca, di Gabriele Galateri, presidente delle Generali e nel cda della banca Carige, di Ennio Doris, presidente e amministratore di Mediolanum e anche lui nel consiglio Mediobanca, e di Luigi Maramotti, vice presidente del Credito Emiliano, e consigliere nella banca di piazza Cordusio. Ma anche di tanti altri, naturalmente.
La questione non tocca solo le alte sfere del potere economico nazionale, ma lo pervade in ogni ordine e grado. Secondo un'indagine dell'Antitrust, su un campione significativo di banche, assicurazioni e sgr esaminate (rappresentativo di più della metà del mercato), erano 325 gli amministratori pizzicati a ricoprire incarichi in imprese concorrenti (dato 2009) sia quotate che non quotate in Borsa.
Oggi, prendendo in considerazione solo i consigli d'amministrazione delle banche e delle assicurazioni quotate a Piazza Affari registrati nel motore di ricerca della Consob, emergono 22 potenziali conflitti d'interesse (dato di fine 2011), che illustriamo in queste pagine. Ed è solo la punta dell'iceberg.
Ci voleva il metodico sadismo di Monti mani di forbice per obbligare i protagonisti del nostro capitalismo a rinunciare al loro vizio più radicato, gli intrecci personali e azionari, e a farsi fuori di soli. Ma non lo faranno senza combattere. Le menti più acuminate del diritto amministrativo sono già allertate in difesa, le lobby coinvolte, dall'Abi all'Ania, scalpitano in vista della stagione dei bilanci, quando gli organismi di governo societario dovranno essere riconfermati o rinnovati: perché scattando il divieto di cumulo, si rende necessaria un'infornata di facce nuove, che vanno trovate, e dovranno essere di totale fiducia, visto che andranno a sedersi proprio sulle poltrone più delicate.
Il fatto è che la norma che il governo ha inserito nel decreto "Salvaitalia" per tagliare il nodo gordiano degli intrecci collusivi, invece di usare la spada di Alessandro Magno, ha usato la penna di Antonio Catricalà , ex presidente dell'Antitrust e aspirante dottor Sottile come sottosegretario alla Presidenza dell'attuale governo. Il risultato è stato una disciplina che lascia troppi spazi di interpretazione, e quindi ampi margini per svicolare.
Per dipanare le ambiguità basterebbe un regolamento di attuazione, come spesso capita. Ma in questo caso non è previsto: la norma va attuata così com'è e basta, ha deciso Monti. Quasi tema che qualcuno gliela faccia rimangiare.
Il punto centrale è: chi è assoggettabile al divieto? Nel mirino ci sono gli incarichi in imprese concorrenti, vengono invece salvati i cumuli di incarichi in società dello stesso gruppo. Apparentemente tutto molto semplice, nella realtà assai meno. Per capirlo, basta atterrare nel cuore dell'assetto capitalistico nazionale: l'asse Unicredit-Mediobanca-Generali. Quel pacchetto del 13,4 per cento del gruppo assicurativo triestino posseduto dalla banca di Piazzetta Cuccia, è controllo oppure no?
L'Antitrust a suo tempo lo aveva considerato un legame rilevante ai fini della concorrenza. Ma è così anche per la norma Monti? E quanto potrebbe resistere a una vertenza in punta di diritto, a un ricorso di un amministratore recalcitrante? Ancora: le Generali, che possiedono la Banca Generali, si possono considerare in concorrenza con il gigante Unicredit? Oppure: essendo Unicredit il maggior azionista di Mediobanca che è il maggior azionista di Generali, possono essere alla fine tutti considerati dello stesso gruppo?
Se così fosse, il risultato paradossale sarebbe di esonerare dalla legge che vuole ridurre gli "interlocking directorate" - gli intrecci esistono anche nel mondo anglo-sassone - proprio il suo monumento più emblematico. Perpetuando il potere e il fascino della galassia, e spianando la strada, per esempio, a Franco Caltagirone e Diego Della Valle verso un posto nel consiglio Unicredit (di cui hanno rilevato un pacchetto con l'aumento di capitale) pur restando attaccati al loro scranno nel cda Generali.
Naturalmente la questione non tocca collezionisti di incarichi fuori dal mondo assicurativo-bancario-finanziario: dei dieci uomini d'oro che a fine 2011 avevano ben cinque posizioni di governance tra tutte le quotate, e cioè Alberto Bombassei, Carlo Pesenti, Diego Della Valle, Jonella Ligresti, Francesco e Alessandro Caltagirone (figli di Franco), Mario Delfini e Carlo Carlevaris (entrambi manager del gruppo Caltagirone), e infine Gabriele Galateri e Gilberto Benetton, alcuni dormono sonni tranquilli, altri perderanno il primato.
Pesenti, per esempio, ha già rinunciato alla sua posizione in Unicredit per restare in piazzetta Cuccia. La posizione in conflitto di Jonella Ligresti, presente nella compagnia di famiglia Fondiaria-Sai, ma anche nel consiglio di Mediobanca, potrebbe essere presto risolta con la vendita della compagnia assicurativa.
Quanto a Galateri, la scelta tra presidente di Generali e consigliere d'amministrazione di Banca Carige, se riconosciuta in conflitto, si risolverebbe facilmente: a Trieste la retribuzione del presidente è sui 550 mila euro, in Carige ne percepisce 68 mila, e quindi non c'è partita. Ma potrebbe sempre migliorare, visto che è tra i candidati alla presidenza di Unicredit, dove la retribuzione per la carica appena lasciata da Dieter Rampl è di un milione e mezzo.
La banca dati Consob che ha permesso di incrociare i 22 nomi di queste pagine, filtrando i cda (e i consigli di gestione laddove c'è la governance duale) di tutte le banche e le assicurazioni quotate, più una sola società di gestione del risparmio, cioè Azimut, lascia fuori non solo la maggioranza delle sgr (in gran parte controllate dalle banche), ma anche una fetta importante del mondo del credito tra Popolari e cooperative.
Dove i recordmen degli incarichi non mancano: Giuseppe Camadini, che siede nel consiglio di gestione di Ubi banca, è presidente nel Banco di Brescia, della Valle Camonica, e consigliere della Fondazione Banca San Paolo di Brescia. Tutte legate, certo: ma non si può dire che tra di loro non ci possa essere concorrenza. E Giampiero Auletta Armenise, consigliere dell'Ubi e di una serie di banche sempre del gruppo lombardo, non vede nessun conflitto con l'incarico di presidente di Rothschild Italia, private banker? Forse no.
Ma vale la pena di ricordare come bacchettava l'Antitrust guidata allora da Catricalà gli interlocking nostrani: "L'amministratore tenderà ad assumere le proprie decisioni tenendo presente l'interesse degli azionisti anche delle altre società in cui svolge eventuali incarichi, e del set informativo acquisito in tale contesto". Insomma, farà il servitore di due padroni. Ruolo che a teatro appartiene a un memorabile Arlecchino. L'eterna maschera italiana. Proprio quella che Mario Monti tenta di strapparci di dosso.
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