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Francesca Paci per "La Stampa"
Lui lo sapeva. Patrick George Zaki sapeva di essere libero fino a un certo punto. Dopo essersi coricato per 22 mesi sul pavimento di una cella del penitenziario di Istiqbal Tora dorme finalmente nel suo letto, ma per la magistratura egiziana resta un imputato in attesa di giudizio, rischia ancora 4 anni di detenzione per aver attentato alla sicurezza dello Stato e aspetta l'udienza del primo febbraio senza dimenticare mai quanto nel frattempo pesino qualsiasi parola, qualsiasi mossa falsa, qualsiasi nube.
La notizia del suo nome iscritto in una black list, che gli impedisce di lasciare il Cairo fin quando il processo a suo carico non terminerà con l'assoluzione, non spegne le speranze accese l'8 dicembre scorso dalla scarcerazione a sorpresa, ma le ricolloca nel contesto egiziano.
Il punto non è la libertà condizionata all'obbligo di firma e neppure il possesso del passaporto: in questi giorni Patrick Zaki ha passeggiato, è uscito a festeggiare con gli amici, ha visitato gli uffici dell'Egyptian Initiative for Personal Rights (Eipr), l'Ong con cui collabora.
Ieri pomeriggio, raggiante, ha diffuso sui suoi nuovi account social la foto con la maglia numero 10 autografata da tutti i giocatori del Bologna appena recapitata al Cairo, «il miglior regalo di Natale».
Partire però è un'altra storia. Sarebbe come poter cancellare con un check-in quasi due anni di indagini, sconfessando tutte le presunte imputazioni del regime. No, Patrick Zaki non si sarebbe presentato all'aeroporto anche se non avesse avuto la certezza di essere in una black list.
È già successo. Tanti prima di lui hanno scoperto l'impossibilità di viaggiare nel momento stesso in cui ci hanno provato. È successo al giornalista e direttore dell'Eipr Hossam Bahgat, fermato poco prima di prendere un volo per la Giordania, dove lo attendeva una riunione delle Nazioni Unite.
È successo all'avvocato e presidente dell'Arabic Network for Human Rights Information (Anhri) Gamal Eid, raggiunto dal divieto di espatrio mentre mostrava i documenti alla polizia di frontiera.
E - molto oltre - è successo anche che Ahmed Samir Santawi, lo studente dell'università di Vienna arrestato dieci mesi fa al Cairo esattamente come Zaki e con accuse analoghe, sia stato condannato il 23 giugno scorso a 4 anni di reclusione e una multa di 500 sterline egiziane senza alcuna possibilità di impugnare la sentenza.
«Occorrono pazienza e speranza» insiste Riccardo Noury di Amnesty International, consapevole di quanto delicate siano le settimane a venire. L'Egitto è un Paese fiero della propria sovranità nazionale e del proprio ruolo geostrategico, nelle cui prigioni si contano però almeno 60 mila detenuti politici, nomi sconosciuti e nomi noti come Ramy Shaath, Ayman Moussa, Mohammed Oxygen Ibrahim, Alaa Abd-el Fattah, che nel suo libro «Non siete stati ancora sconfitti» (Hopefulmonster) racconta le infinite giornate all'interno del carcere.
Bologna aspetta. La città, gli studenti, i professori. «Tornerò presto» ripete Patrick Zaki. L'ha ripetuto anche domenica sera alla tv italiana, ospite solare di Fabio Fazio. La luce è accesa, la strada è tortuosa, la cautela è imperativa e sempre troppo, troppo poca.
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