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Francesco La Licata per "la Stampa" - Estratti
La Cassazione ha annullato il provvedimento di proroga del carcere duro (l'ormai famigerato 41 bis) per Giovanni Riina, figlio di don Totò "u curtu", il macellaio (chiedendo scusa ai macellai) di Cosa nostra che – con le stragi – ha trasformato la mafia in una organizzazione terroristica.
La Corte Suprema ha ritenuto poco motivata la sentenza che decideva di accogliere la richiesta di proroga del ministero della Giustizia accolta dal Tribunale di sorveglianza di Roma.
Per questo motivo una nuova sentenza dovrà essere pronunciata da altri giudici che dovranno riempire i "vuoti" riscontrati dalla Cassazione.
Ovviamente la notizia ha destato clamore e polemiche. Così accade quando c'è di mezzo qualcuno dei Riina: una famiglia "divisiva" per antonomasia, un cognome che riporta nella memoria collettiva lutto, dolore e rabbia per il "danno" subìto, nel corso dell'ultimo mezzo secolo, dalla società civile e dalle istituzioni. Tutto ciò che ha riguardato i Riina, gli eredi soprattutto, è finito puntualmente nel "frullatore" dello scontro fra i cosiddetti "buonisti" e gli intransigenti senza perdono che intendono tutelare il diritto al risarcimento di tante persone che hanno subito lutto e dolore.
Ma non è solo questione di spirito di polemica. I figli di don Totò, le loro vite, i loro gesti, la loro ostinazione nel rimanere incastrati nella "cultura corleonese", hanno reso difficile la volontà di separare le responsabilità dei figli dalle colpe del padre. Anche se, bisogna dirlo, proprio l'ottusità degli adulti ha fatto sì che (specialmente) i maschi della famiglia del "padrino" assumessero sulle loro non robuste spalle il peso enorme dell'eredità paterna.
Giovanni Riina oggi è un uomo vicino ai cinquanta. Da 28 anni sta in carcere, condannato all'ergastolo per associazione mafiosa e pluriomicidio.
Una sentenza senza speranza che gli è caduta addosso quando, appena ventenne, dovette imparare a conoscere la rudezza del carcere duro. Ma fu libero arbitrio, il suo? Fino a poco prima dell'arresto Giovanni era andato avanti protetto dal peso ingombrante del padre che aveva scelto di far crescere i figli in clandestinità: una vita irreale, senza contatti sociali che non fossero i parenti stretti, e dunque niente scuola, nessun amico, niente compagni.
Dopo l'arresto del padre, travolto dalla valanga di sangue della mattanza mafiosa e delle stragi di Falcone, Borsellino e delle bombe di Roma, Milano e Firenze, i Riina erano tornati a Corleone "marchiati" dalla nomea di don Totò.
E Giovanni finì nell'orbita dell'educazione criminale impartita da un "maestro" di primordine come lo zio, Leoluca Bagarella, fratello della madre Antonietta. Un vero duro, Luchino, che faceva paura solo a guardarlo negli occhi ed era capace di uccidere anche a mani nude. Nella mente di Bagarella c'era che Giovanni doveva prendere il posto del padre arrestato. Così voleva (e vuole) la tradizione mafiosa. Ma il designato deve dimostrare di esser meritevole di accogliere tanta eredità.
Spetta allo zio iniziatore di organizzare una bella cerimonia in grande stile. Non si sa bene come e perché decide di uccidere tre persone (due fratelli e la moglie di uno dei due) secondo lui implicate nel progetto di sequestro di uno dei figli di don Totò.
Poco importa se non vi fossero tutte le prove: Luchino non è uomo del dubbio, lui ha solo certezze, poche parole e decisioni rapide, immensa capacità di sopportazione di ogni tipo di dolore. Basti dire che al collo porta un cammeo col ritratto di Vincenzina, la giovane moglie che si è impiccata in casa sopraffatta dal "rimorso", dal senso di colpa per aver portato nella famiglia Bagarella il giovane Giuseppe, il fratello piccolo, che diventerà uomo d'onore ma poi, una volta arrestato, si pentirà coprendo tutti di disonore e soprattutto di guai giudiziari.
Forse stavano per uccidere le persone sbagliate (le successive indagini accerteranno che le vittime non avevano nessun legame con la criminalità) ma Luchino non sente ragioni. Organizza un gruppo di fuoco e porta con sé il nipote di 20 anni. Una strage efferata (la coppia di sposi assassinata sotto gli occhi dei due figli piccoli) che sconvolge Corleone, ma non muove a compassione lo zio di Giovanni che vede avvicinarsi il trionfo dei Riina.
In verità Giovanni si era già sottoposto a qualche "prova d'arte" di minore entità: aveva imbrattato e danneggiato (forse insieme a Giuseppe Salvo, il fratello minore) la lapide posta a Corleone in memoria del giudice Giovanni Falcone, quasi a voler rimarcare il possesso del territorio, considerato "luogo sacro" e non violabile da parte di simboli dello Stato.
Ma gli omicidi hanno rilevanza ben diversa nella scalata alla gerarchia mafiosa. Insomma era lui il predestinato, più ancora del fratello piccolo che si è agitato (specialmente sui social dove si accredita come artista per aver scritto la storia del padre presentata a Porta a Porta) e si agita parecchio ma senza offrire solide garanzie di affidabilità.
TOTO RIINA IN OSPEDALE. CON I FIGLI E LA MOGLIE
Cos'è oggi Giovanni, dopo 28 anni? Lui continua a «essere il figlio grande di Riina» e quindi un «corleonese irriducibile», soprattutto in assenza di una qualsiasi presa di distanza. Nessuno dei figli di don Totò ha mai vacillato sulla propria identità. È di poco tempo fa la spacconata di Giuseppe che sui social ha dato il buongiorno, ma «da via Scorsone di Corleone», recuperando il vecchio indirizzo di casa propria che il Comune ha cambiato, intestandolo a Cesare Terranova, magistrato ucciso da Riina.
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