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Carlo Bonini per “la Repubblica”
Nei loro selfie stranianti e straniati, postati un attimo prima dell’irreparabile, a futura memoria o colpa di chi non ha capito per tempo, sembrano tutte uguali, anche se non lo sono. Vite a perdere su cui Daesh ha lanciato la sua Opa telematica. Mohamed Lahouaiej Bouhlel, “Momo” il porco, il depravato macellaio di Nizza. Muhammad Riad, il ragazzino afgano di Wurzburg con l’ascia e il pugnale, osceno dejavu del Malcom McDowell nel poster con lama e camice bianco di Arancia Meccanica.
Omar Mateen, il sociopatico di Orlando, vendicatore della sua omosessualità repressa. Larossi Abballa, l’assassino narcisista di Magnanville. Hanno età simili. Tra i venti e i trenta. Pregano un Dio di cui poco o nulla sanno, ma al cui culto mortifero dal vessillo nero si sono consegnati in lunghe sessioni di onanismo online. Un “auto radicalizzazione” che non ha bisogno né di tempo, né di moschee. Che non contempla domande o risposte. Perché priva, nel suo autismo, di ogni possibile interazione che non sia il click di un mouse o di un trackpad.
In quei selfie c’è una domanda che ci riguarda. Perché Mohamed, Muhammad, Omar, Larossi, sono — come si sarebbe detto nel secolo scorso — nel nostro “album di famiglia”. Figli del nostro tempo, delle nostre libertà, di cui si nutrono e nei cui interstizi vivono fino a un secondo prima di spegnerle trasformandosi in bombe di odio. Ed è una domanda semplice.
Come si fermano? È la stessa domanda che l’America si pose dopo l’11 Settembre del 2001 e che sciolse con il “Patriot Act” e Guantanamo. Cui l’Inghilterra rispose dopo le stragi di Londra con il “Prevention of Terrorism Act” (con il riconoscimento di un potere assolutamente invasivo nelle comunicazioni e la significativa restrizione del diritto di difesa dei fermati o sospettati) e su cui la Francia torna oggi a dividersi alla vigilia di un voto parlamentare che dovrà stabilire se prorogare o meno lo Stato di emergenza e le leggi speciali che le fanno da corollario.
omar mateen invito ad uscire un collega poliziotto
Una discussione che, a ben vedere, nel riproporre l’antinomia libertà-“ securitarismo”, rischia persino di essere arretrata rispetto all’avanzamento di una sfida che ha reso improvvisamente inservibili i vecchi ferri della prevenzione. E questo perché ancora prigioniera dell’illusione “simmetrica” che esista un “nemico esterno” da cui proteggersi con strumenti “eccezionali” e non, al contrario, un “nemico interno” che dall’esterno attinge ormai solo una parola d’ordine di odio che si è fatta globale perché inclusiva di ogni sociopatia.
Un alto dirigente dei nostri Servizi racconta così il guado: «Per anni, il modello di prevenzione si è mosso su uno schema tradizionale. Diciamo pure cartesiano. Esistevano degli indicatori di “radicalizzazione”, dunque di pericolosità, che consentivano di monitorare, attraverso le chat in Rete, o con infiltrati nelle moschee, la progressiva trasformazione e alienazione di un singolo.
E questo sulla base di un presupposto. Che il singolo si muovesse in un contesto di più individui. Se non un’organizzazione complessa, qualcosa che ne riproduceva comunque le dinamiche e che chiamavamo “cellula”. Un contesto che, prima o poi, portava all’esposizione del singolo o, addirittura, dell’intera rete. Oggi, di fronte a soggetti come Mohamed Bouhlel, quell’armamentario è inefficace. L’istantaneità della radicalizzazione richiede un altro approccio».
Già, ma quale? Franco Roberti, Procuratore nazionale antiterrorismo, è convinto che sia necessaria una “rivoluzione”. Ma culturale. Non legislativa. E che, almeno in questo, forte dell’esperienza del terrorismo politico e della lotta alla Criminalità organizzata, il nostro Paese, con i dovuti scongiuri, faccia da battistrada.
«Penso — spiega Roberti— che la battaglia della prevenzione possa essere vinta solo imparando a leggere l’apparente illogicità del “lupo solitario” e a muoverci nel suo habitat, la Rete, leggendone i segni. La questione, insomma, non è avere nuovi strumenti. Ma imparare a usare sempre meglio quelli che già abbiamo. Prosciugare l’acqua in cui questi pesci nuotano. O comunque renderla insidiosa ».
In Svezia, nel 2013, la “Swedish Defence Research Agency”, agenzia governativa di supporto alla definizione di strumenti utili alla difesa della sicurezza nazionale, mise a punto uno studio che fissava dei “marker” comportamentali linguistici, e dunque utilizzabili principalmente nel monitoraggio dei social media, propri di un soggetto destinato a “radicalizzarsi in modo violento”, che l’orizzonte sia politico- ideologico o, al contrario, religioso.
Alcuni di questi erano la “propensione narcisista ad anticipare ciò che si ha in mente di fare”, “l’ossessività degli argomenti discussi o ricercati in Rete”, l’uso artefatto di “eufemismi linguistici” per mascherare termini violenti. La stessa Agenzia raccomandava che questo tipo di algoritmo fosse affidato non solo alla ricerca delle macchine, ma anche al giudizio di analisti.
Dice ancora Roberti: «Mi sono definitivamente convinto che non potendo evidentemente intercettare milioni di utenti in Rete si debbano coinvolgere i giganti della Rete e dei social media per aiutarci a fare in modo che siano algoritmi nei loro server ad essere automaticamente la prima spia della radicalizzazione violenta di soggetti che altrimenti sarebbe impossibile trovare» .
Un cambio di passo nella “nuvola”, insomma. Un po’ come è avvenuto sulla “strada”, in quello che continua ad essere l’altro tradizionale e fondamentale lavoro della prevenzione. Quello di polizia sul territorio. Nel nostro Paese è cambiato dopo l’ottobre del 2009, quando Mohammed Game si lanciò a Milano in quello che resta, al momento, il solo caso di attentato per mano di un “lupo solitario” nella nostra storia recente.
«Da allora — spiega una qualificata fonte del nostro Dipartimento di pubblica sicurezza— è cambiato il modo di mettere insieme e leggere dati che solo apparentemente sono incongrui. Reati comuni come rapine, furti, spaccio di stupefacenti o episodi di violenza vengono incrociati con il profilo di un soggetto. La sua età, la sua religione, il contesto in cui vive». Non è una strada infallibile. Ma è una strada. L’alternativa è alzare le mani.
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