COME MAI ALLA DUCETTA È PARTITO L’EMBOLO CONTRO PRODI? PERCHÉ IL PROF HA MESSO IL DITONE NELLA…
Luke Leitch per "www.corriere.it"
*Editor at Large di Vogue Italia, Contributing Editor di Vogue Runway, e Style Editor di 1843 (The Economist)
È lunedì sera, sono in taxi diretto a casa da Linate. Seleziono alcune foto appena scattate in aeroporto, le dispongo in ordine su Instagram e digito la didascalia seguente: «Di recente, durante i miei viaggi tra Londra a Milano, mi diverto ad ascoltare gli inglesi che si lagnano della burocrazia italiana.
Tutti quei moduli da compilare! A cosa servono, poi? Stasera a Linate c’è un nuovo protocollo: il Regno Unito è stato aggiunto alla lista dei Paesi i cui viaggiatori, all’arrivo in Italia, devono sottoporsi a un tampone per il Covid-19 prima di poter proseguire. Venti minuti di attesa, un tampone veloce su per ciascuna narice — preparatevi! — e poi ti spediscono il risultato.
TERMOSCANNER PER I CONTROLLI ANTI COVID IN AEROPORTO
Se sei positivo, devi restare in isolamento. Ma quanto sono inefficienti, questi italiani, vero? Testare, tracciare e monitorare — veloce, nessun intoppo. Però, stranamente, c’erano alcuni inglesi che si lamentavano di doversi sottoporre al test. Invece sappiate che se non riuscite a farvi fare il tampone in Inghilterra, o se il centro di monitoraggio più vicino si trova a diverse centinaia di chilometri di distanza, come tanti inglesi hanno purtroppo scoperto, allora vi suggerisco di prendere un volo economico di primo mattino per qualsiasi aeroporto italiano (perché in Italia si mangia benissimo ovunque!), fatevi fare il test gratuitamente a spese del governo italiano, poi fate un salto in città per godervi un bel pranzo, e più tardi risalite sull’aereo per rientrare nel vostro Regno Unito, così fiero della sua sovranità, della sua libertà e del suo buon governo.
terapia intensiva coronavirus 1
Sarete ancora in tempo per ascoltare i notiziari della sera, con gli ultimi sviluppi indubbiamente rassicuranti. #covid_19 #coronavirus #milano #london #linate #heathrow #staysafe».
Incoraggiare uno tsunami di turisti «sanitari» inglesi diretti in Italia con l’intenzione di sfruttare gli eccellenti centri di monitoraggio di questo Paese non è forse la migliore delle idee: chiedo umilmente scusa. Ma come anglo-australiano che divide il suo tempo tra Londra e Milano (sono arrivato in Italia per lavoro e ci sono rimasto per amore), resto perennemente sbalordito dalla distanza che intercorre tra la percezione che si ha all’estero dell’Italia e degli italiani e la mia esperienza di vita qui.
Oggi che il Covid-19 rappresenta la più grande minaccia globale e ci aggredisce tutti indistintamente, è proprio attraverso il prisma del coronavirus che spesso si esprimono questi stereotipi scontati e stanchi.
Lo scorso marzo, il New York Times si chiedeva, con grande supponenza, se l’Italia sarebbe stata capace di aderire alla quarantena decretata dal premier Conte, proprio per quella storica propensione degli italiani alla furbizia che li rende così abili nell’aggirare le leggi. Ma anche senza tirare in ballo la pessima figura fatta dal New York Times nel prevedere le preferenze elettorali dei suoi stessi lettori (la mattina delle scorse elezioni presidenziali il giornale dava ormai per certa la vittoria di Hillary Clinton), le esternazioni riguardo l’Italia mi sono parse, come minimo, fuori posto.
ragazze in giro per liverpool prima del coprifuoco
A marzo l’Italia aveva già cominciato a prendere molto sul serio la minaccia del Covid-19. A Linate, il controllo della temperatura era iniziato addirittura a febbraio e quando ho fatto ritorno a Londra, ai primi di marzo, quasi tutti i miei amici si erano già messi la mascherina e si davano da fare per provvedere all’isolamento dei parenti anziani. Anzi, mi sono affrettato a spedire per posta alcuni pacchi di mascherine in Italia, perché a Londra non le comprava nessuno, mentre a Milano erano ormai introvabili. Ma era solo quello che avevo visto con i miei occhi e ascoltato con le mie orecchie, come potevo giudicare?
aeroporto linate – coronavirus
Le settimane successive, quelle della terribile prima ondata, hanno dimostrato che, come sempre, la verità si trova a metà strada tra quello che credi di sapere e quello che gli altri credono di sapere. Certo, c’erano quei video divertentissimi su YouTube, quasi delle gag, con i sindaci delle piccole città di provincia che andavano a rimproverare di persona i cretini che preferivano la spiaggia alla quarantena.
Eppure si avvertiva un senso fortissimo di determinazione e di unità nazionale persino in quei giorni bui, quando venivano ignorate le richieste di dispositivi di protezione, lanciate dall’Italia ai paesi europei non ancora toccati dal virus, quando le strade di Milano riecheggiavano del lamento delle sirene e la tragedia di Bergamo sembrava inarrestabile. Ho cominciato a ricevere notizie di amici ricoverati in ospedale, poi di amici i cui genitori o nonni erano deceduti. Tutto andrà bene, ma quando?
giuseppe conte a bergamo con mascherina
Bloccato a Londra, non vedevo l’ora di rientrare a casa, e grazie a un incarico professionale e all’affidamento a un dottore, sono riuscito a tornare a Milano il 16 aprile, ma solo dopo un controllo severo ed esauriente presso il presidio sanitario all’aeroporto di Roma. Arrivato a Milano mi sono isolato, poi ho effettuato un tampone (a Londra non erano disponibili), risultato negativo.
Verso la fine di maggio sono riuscito a visitare un laboratorio di Prada appena riaperto, per un articolo destinato ad American Vogue, che ho scritto in volo verso Londra da Roma. E quando il governatore dello stato di New York, Andrew Cuomo, incoraggiava il governo federale a mostrarsi «Severo. Attento. Disciplinato. Unito. Premuroso», queste erano esattamente le qualità che avevo modo di osservare a Valvigna, dove la casa di moda collaborava con le strutture sanitarie locali per sanificare i luoghi di lavoro, in vista della ripresa della produzione anche a distanza. Nelle parole di Lamberto Berti, il responsabile delle relazioni industriali: «Ce la stiamo mettendo tutta per fare bene. Dobbiamo tornare alla vita, e l’unico modo è garantire protezione adeguata e comportamenti sicuri».
esercito a bergamo per portare via le bare 4
Quando sono sbarcato a Heathrow, Londra, quella sera stessa, non ho trovato nessun controllo, nessuna quarantena, niente di niente. Solo il 1 luglio — quando il numero dei contagi era finalmente in calo anche nel Regno Unito — sono stato obbligato a riempire il primo modulo per il tracciamento nel rientrare in quel Paese.
Il mese scorso il premier britannico Boris Johnson ha insinuato che la percentuale di contagi è stata (ed è tuttora) più alta sotto il suo governo rispetto all’Italia, perché la Gran Bretagna «è un Paese che ama la libertà». In vernacolo, la giusta reazione a una simile scempiaggine è quella che mi diverto ancora a pronunciare in modo sgrammaticato: «Cazzate totale». In Inghilterra il governo ha incoraggiato i cittadini ad andare al ristorante e a tornare in ufficio.
Il consigliere del primo ministro si è inventato le scuse più elaborate e inverosimili per aver infranto le regole del lockdown, e non è stato licenziato. Se vi capita di leggere l’eccellente rivista Private Eye, abbondano gli esempi di coperture e pessima gestione che hanno contraddistinto la reazione del governo britannico all’emergenza sanitaria. La tremenda lezione appresa da Trump è che se te ne freghi e scarichi ogni responsabilità, qualsiasi malefatta resterà impunita.
Pertanto l’esempio della leadership inglese non ha fatto altro che incoraggiare i cittadini a fare altrettanto. E il fallimento dell’esempio inglese sta nel suggerire che «libertà» significhi fare esclusivamente quello che ci pare e piace, mentre il privilegio della «vera» libertà esige la consapevolezza della responsabilità collettiva, nel nostro interesse personale e nell’interesse degli altri.
Per questo mi diverto a fare la fila e farmi infilare il tampone nel naso — e a immortalare l’atto su Instagram — quando approdo a Milano dopo una visita in una Londra irrequieta e smarrita. Perché sappiamo benissimo che bastano pochi imbecilli presuntuosi, in qualunque parte del mondo, per offrire a questo orribile virus l’occasione per svilupparsi, diffondersi e uccidere i nostri cari.
E mentre so benissimo che l’Italia non è un Paese perfetto, che si tratti di arginare il virus o affrontare qualsiasi altro intervento (questo sarà per un’altra volta, chissà), posso testimoniare personalmente della vigilanza e della serietà che ho trovato in questo Paese e che mi fa sentire molto più «libero», rispetto alla mancanza di vigilanza e di serietà che ho riscontrato nel Regno Unito.
Forse Boris Johnson ha ragione su una cosa: essendo (mezzo) britannico anch’io, il senso di libertà — ma la libertà che nasce dalla serietà, dalla risolutezza e dalla precisa valutazione del rischio — è ciò che apprezzo maggiormente in Italia in questo momento.
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