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Stefania Ulivi per il “Corriere della Sera- Roma”
«Aveva un universo dentro e invece di tenerlo per sé ha fatto di tutto per condividerlo». Claudio Caligari non c’è più ma del regista scomparso nel maggio scorso resta, insieme al suo ultimo film Non essere cattivo — attualmente nelle sale con ottimo successo di pubblico, dopo il passaggio, fuori concorso, a Venezia 72 — la forza che ha trasmesso a una nuova generazione di cineasti e attori.
In particolare a chi, come Alessandro Borghi, si è trovato a lavorare su un set che, non è retorico sottolinearlo, ha lasciato segni profondi in tutti. Borghi, 29 anni, romano di Garbatella, a Venezia è stato premiato insieme a Ondina Quadri (Arianna) con il Nuovoimaie Talent Award per i migliori attori emergenti.
In Non essere cattivo è Vittorio, uno dei due «fratelli di vita» nella Ostia di metà anni ‘90. L’altro, Cesare, è Luca Marinelli. Durante le riprese i due hanno vissuto insieme, condiviso ansie e soddisfazioni insieme a Valerio Mastandrea che di tutta l’operazione è stato il motore e al resto della troupe. Portare a termine il terzo film di Caligari è stato, avete detto, «guadare un fiume».
Cosa ha significato per lei?
«Ho capito quanto quest’esperienza ci abbia segnato solo a Venezia appena si sono riaccese le luci in Sala Grande: nove minuti di applausi, la gente che piangeva ci ringraziava. Il mio cellulare che si è riempito di messaggi di colleghi che vorrei incorniciare. E, ora, i tanti che mi fermano per strada per parlare di Claudio. Mi ha insegnato cosa voglia dire nutrire un amore appassionato e totale per il cinema».
Lei ci è arrivato facendo un giro largo: modello, poi universitario, quindi stuntman.
«Sì, come accade spesso, è successo tutto un po’ per caso. Da ragazzo ho fatto il modello per arrotondare. Dopo il liceo mi sono iscritto a Economia ma nel frattempo, essendo amico del figlio di Giampiero Comanducci, uno dei grandi stuntman italiani, ho iniziato a frequentare i set. Quindi nel 2006 quello che ancora è il mio agente mi ha visto in una palestra e mi ha proposto un provino per Distretto di polizia».
Molta fiction a tema poliziesco, quasi sempre, in effetti, in parti di cattivo.
«La cosa bella dell’essere attori è essere diverso da quello che sei. Nella vita sono un bonaccione».
È vero che Mastandrea &C. dicono che lei è l’unico titolato a dar consigli d’abbigliamento?
«Ah, ah. Vero. A Venezia mi controllavano, ero l’unico ad averci pensato... Io, Luca e Valerio siamo molto diversi ma su quel set è nata un’amicizia straordinaria».
Com’è stato l’incontro con Sollima? Dopo «Romanzo criminale 2» l’ha scelta per «Suburra».
«Meraviglioso. Ho fatto il provino per la seconda stagione della serie. Una parte piccola, quella di un pugile. Per far capire come lavora Stefano: per farmi girare due scene mi ha fatto fare un mese e mezzo di preparazione in palestra».
In «Suburra» è Numero 8, erede di una famiglia di Ostia che vuole trasformare in una nuova Las Vegas. Un criminale un po’ matto e sognatore.
«Un personaggio fuori le righe anche come aspetto fisico. Di più non posso dire. Un’altra esperienza speciale. Al fianco di Pierfrancesco Favino, Elio Germano, Claudio Amendola».
Se lo ricorderà questo 2015?
«Eh sì, un anno fortunatissimo. Mi è venuta ancora più voglia di fare cinema. Ora sto girando un’opera prima con Michele Vannucci, una storia vera ambientata in una borgata romana».
Gli eredi dei protagonisti del mondo pasoliniano nella Ostia anni ’90, la mafia eretta a sistema della Roma di oggi. I due film raccontano cose oggi sotto gli occhi di tutti.
«Vero. Ma non c’è parentela. Caligari ha mostrato lo spaccato di una Roma che tutti conoscevano e nessuno ha voluto vedere. Suburra è pienamente un film di denuncia. Dopo sarà più difficile far finta di non sapere».
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