1- C’È VITA DOPO IL PATONZA, MONTI E LO SPREAD? QUELLO CHE È CERTO È CHE IL GIROVITA C’È E SI ALLARGA. IN ATTESA DELLA RESURREZIONE, GNAM! AVANTI CON LE ABBUFFATE 2- MANGIARE, L'ATTO APPARENTEMENTE PIÙ OVVIO CHE UNO POSSA IMMAGINARE, A FINE ANNO, CAUSA CENONI, SCATENA LA LINEA COTICA. E COL CONTO ARRIVA ANCHE LA PROGNOSI 3- ESSÌ, IL GRANDE VIZIO DI OGGI È LA GOLA SFONDATA: L’AMATRICIANA CI TIENE IN PUGNO, IL FRITTO CI UMILIA, IL MAIALINO CI RENDE PECCATORI E QUANDO CI SI ALZA DALLA TAVOLA ABBIAMO LA FACCIA LIEVITATA DI UN PANETTONE, L'UVETTA AL POSTO DEI BRUFOLI, E LE ORECCHIE AGUZZE A MO' DI UN TORRONCINO; IL NASO, POI, HA ORMAI IL SENSO DI UN COTECHINO E GLI OCCHI GALLEGGIANO IN UN LAGHETTO DI COLESTEROLO ESPANSO 4- IL MITO DELL'ABBUFFATA, ETERNO SOGNO DI UN MONDO CHE FU CONTADINO, RACCONTATO DA STEFANO DI MICHELE, CON LE FOTO DI PIZZI, CHE NON SOPPORTA PIÙ LA FAMELICA INUTILITÀ DEL MANGIARSI ADDOSSO. E FUSTIGA CHI DIVORA CIBO SENZA AVER FAME

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Stefano di Michele per "il Foglio" - Foto di Umberto Pizzi da Zagarolo

Il ragazzo e la ragazza sono seduti a terra, a gambe incrociate, al centro della piccola piazzetta. Hanno un piatto di plastica con del cibo, due bicchieri di vino. Quella piazza ha puzza di piscio e vomito. Intorno, una folla di piccioni. Un angolo di Calcutta? Affamati disperati in una bidonville keniota? Un soccorso agli alluvionati?

Macché, immagini da happy hour romano in autunno avanzato - perché oltre al piscio, al vomito, ai piccioni, agli scacazzamenti degli storni, al tramezzino avanzato e sminuzzato nel piatto, al freddo dei sampietrini che gela le giovanili chiappe, c'è anche un lieve accenno di pioggia: che misericordiosa non cade, e senza misericordia lascia l'odore stantio vagare nell'aria.E' il paradosso del cibo senza alcuna necessità - senza fame, e per fortuna, ma pure senza allegria.

Fondamentalmente, senza senso, così che insensatezza perfetta trasmette l'immagine dei due - persino paganti, anzi lautamente paganti, nel loro miserabile trascinarsi tra paghetta genitoriale e precariato istituzionalizzato: l'inutile mangiare costa assai più del mangiare necessario.

I giorni sono quelli della decrescita, e tappati in casa come in quelli della merla, a rosicchiare lo stretto necessario, si dovrebbe stare - e mai invece, come negli ultimi anni, questa terrificante patologia del mangiare in ogni dove, a ogni ora, per ogni occasione, ognuno a consolazione del "suo intestino tremebondo": sui marciapiedi e sugli autobus, per eventi (il quale "evento" di solito, si riduce all'inaugurazione di un altro tugurio - ma chic, per carità, minimal, cool - magnereccio) e per presentazioni di eventi (la mostra del tal pittore: e si dovrebbe bere, piuttosto che mangiare, così da offuscare le croste appese ai muri; il libro del tal scrittore, e come sopra; il convegno del tal partito, e come sopra, ma a damigiane invece che a bottiglie dovrebbe allora correre l'alcol).

E' tutto un pubblico ingurgitare, satollarsi, inghiottire. rimpinzarsi, pappare - un colare ai lati della bocca di salse indefinite, un precipitare di carciofini nell'incavo delle tette, un tracollare di pesto sulla camicia immacolata. E' lo spettacolo del pubblico mangiare, un vedere e non vedere di lingua che ruota intorno all'olivetta, di carie mal otturata che l'occhio del fotografo becca e consegna alle pagine di cronaca (perché poi ognuno mangia a fauci aperte, spalancate, a far mostra di tartaro e di macchie nere: antichi precetti educativi dimenticati per sempre, un'allegrezza obbligata, di fosche tinte colorata), tutto un tenersi barcollanti con un piatto in una mano, un bicchiere nell'altra, e non si sa come portare una mozzarellina di bufala in bocca.

Il problema è, appunto, che nessuno si vede mentre mangia - e l'atto che si vorrebbe allegro, vitale, cameratesco, all'occhio esterno si muta in grottesca mascherata: un bovino ruminare da stalla, un vagare tra la folla disseminando risate insensate e pomodorini pachino instabili. E' quasi più impressionante dell'orrendo spettacolo della fame - che è dignitoso, che è vero, che è dramma - lo spettacolo della famelicità gratuita: quel divorare per finire in realtà divorati da se stessi.

Le foto di Umberto Pizzi (quelle che pubblica Dagospia) sono indiscutibile e preziosa testimonianza di questo aggrovigliarsi (quasi sempre in luoghi impervi, scomodi e pacchiani - affollati sempre) di corpi sudaticci e di vaganti piattate di cacio& pepe: la nobilastra stravaccata sul divano, la starlette smutandata, il politicante di terza fascia festoso, il giornalista aggregato (aggregare giornalisti, in queste situazioni, è impresa di spettrale facilità: liberarsene risulta più complesso), l'imprenditore abbronzato (e se ci fu chi incautamente disse che riformismo era una parola malata, magari parola malata è imprenditore.

Tutti imprenditori, pure quelli del "Grande Fratello". "Piacere, lei che lavoro fa?". "Sono un imprenditore". Da quando? Di cosa? Che significa? Mah), il musicante spiantato. L'effetto finale - dell'ammasso, del carnaio: puzza di ascelle, puzza di frittura - è quello che si ritrova, pari pari, negli spettacolari quadri di George Grosz: come di un decomponimento in corso, come di una mutazione genetica che solo quelli impegnati nell'assalto al buffet sembrano non riconoscere.

Mai così tanto, nella storia patria, si è fatto mostra del proprio mangiare - del cucinare, del parlare del mangiare, del parlare del cucinare. Neanche nei giorni del Piano Marshall, quando la prima farina mutata in pagnotte faceva la sua apparizione, e una fame da guerra scuoteva gli stomaci di tutti. Persino nelle file fuori dalle mense della Caritas c'è più senso della discrezione e migliore educazione (è la differenza, appunto, tra fame come necessità e il mangiare per mettersi penosamente in scena).

Ci sono misteri imponderabili, come gli assalti ai buffet. Persone almeno di media pezzatura economica, certamente ben alimentate e di solito troppo alimentate, matrone dal giro di perle e dal giro vita ugualmente impressionanti, mostresse siliconate, si buttano come sommergibili suicidi, pronti a infilare una forchetta negli occhi del vicino per portare in salvo una fettina di melanzana grigliata, a buttare nella mischia tette e culo per salvare un micragnoso microscopico supplì freddo e molle.

Mai il cibo, come da quando è così poco importante, appare tanto fondamentale nei nostri comportamenti. Poi, se il trash da terrazzona-festona-generone è quello che deborda e satolla (gli occhi almeno, l'appetito passa), c'è poi il trash minimal - nemmeno trash, ma chi, noi trash?, non trash, ma attenti al mondo circostante - un po' femminil-metropolitano-democratico, con tutto il fru fru delle bio osterie, "c'è una bio osteria fantastica, dobbiamo andare", la carne bio, l'uovo bio, il pane bio, pio pio pio!, meglio ancora se fatto in casa, terrificante omaggio a tutti i possibili ospiti pronti a farsene meraviglie,

"ah, ma come si sente che è naturale! altro che il panettiere!", il tagliolino al limone tutte le sere per vedere di acchiappare un maschio testosteronicamente soddisfacente, tentativo sciaguratemente e perennemente a vuoto - "io gli uomini li faccio mangiare!": sarà per questo che gli uomini scappano, latita l'eros e abbonda l'insalata fresca che pulisce la bocca, pur se la bocca poi solo per chiacchierare serve - essendo peraltro, questi tagliolini al limone, con un piede in una pretesa raffinatezza e un altro in un'assoluta inconsistenza, il perfetto succedaneo sociale delle pennette alla vodka che infestavano gli anni Ottanta.

Del cibo ognuno parla e ognuno sa. Ci sono quelli patiti del chilometro zero, il cui ovetto fresco, il carciofo per la frittata e la rucola per tutto deve arrivare da non più di cento metri da casa, lì girato l'angolo, appena dopo il caseggiato. E quando afferrano qualcosa santificato dall'impatto zero - fosse uno smorto fagiolino, fosse una coppetta di gelato di soia (che soia e crusca, poi, a loro volta, aprono un capitolo complicato e irrisolto come le guerre della Terra di Mezzo) - oh giubilo!, oh estasi!, lo si ammira, amici e parenti convocati appositamente al triste desinare, come si faceva con le teste del falso Modì - ovviamente quando ancora si pensava che fossero del vero Modì..

Ma ecco, meglio tornare alla pubblica esposizione del proprio ingurgitare. Cosa a questo possa spingere - invidia del rigatone come l'invidia del pene, mostrare il felice adeguamento all'antico detto "uomo de panza, uomo de sostanza"? O ideale ricongiungimento con la signora disegnata in una vignetta di Altan che spiegava alla sua amica con quanta frequenza, diciamo, evacuavano l'ingurgitato: "Sa com'è, abbiamo il water nuovo" - genialissima spiegazione. Caga dunque molto, l'Italia che molto mangia.

Ci sono di quelli che vanno vagando all'una di notte per il Chianti, alla ricerca di quel tal ristorante, con l'apposita guida sotto il braccio, "ci siamo quasi, ci siamo quasi...", e non ci siamo mai, e gli altri vorrebbero sfanculare lui, il Chianti, la guida e l'oste e il lavapiatti - che poi ti accoglie e ti porge un bicchiere di whisky, "invecchiato nelle botti di rovere, vicino al mare: ascoltate, si sente ancora lo sciabordio delle onde", e tutti come coglioni con l'orecchio teso da Siena al Galles per sentire lo sciabordio dell'Atlantico: "Ah, questo sì...". Non avendo fame, la gente fa cose incredibili per mangiare.

E non avendo fame, di cibo sempre parlano. E non avendo fame, le televisioni sono piene di programmi irritanti di cucina dove una volta spadella la giornalista (una disputa, per quale canale doveva prendersela, che nemmeno per la diretta della messa di Natale del Papa), un'altra un Vip (se questi Vip o Vipparelli e mezze tacche di Vip non si trovano un lavoro vero, è la fine del vivere civile), a volte concorrenti qualsiasi, a volte persino cuochi... E libri di ogni genere, per ogni tasca, per ogni strenna. E riviste a valanga - le mamme a casa prima vedono la televisione, poi leggono le ricette sulla rivista, qualche congiunto crudele a Natale le regala il libro della presentatrice...).

Non è neanche vera ingordigia, quel piluccare pian piano, quello stringersi sul divano vicino al sottosegretario, salvando l'autorevole deretano governativo da un vagante funghetto sott'olio - e un andare e un tornare e un invitare a sua volta, c'è il vino novello, c'è la porchetta dei Castelli, c'è il farro biologico... Non è tanto la gola, quanto un problema di golosità mediatica - e il cibo si fa strumento. Né grossa differenza, poi, occorre decentemente mettersi a scovare tra i porchettari televisionari e i raffinati gourmet che vanno a caccia della mezza unghia di pera, con cacao amaro sopra e aceto balsamico a lato - e al miracolo urlano! e al genio esultano!

E la stessa ruota, più o meno - un vero capolavoro comico della letteratura italiana sono a volte quelle recensioni gastronomiche dove si vede che l'estensore quasi non riusciva a trovare le parole adatte, dal sublime all'indimenticabile, dal paradisiaco all'inarrivabile, dall'eccelso al sommo. E dopo che in maniera tanto mirabile Antonio Albanese ha preso per il culo i sommelier - ah, il retrogusto di liquirizia con fragola nel sottobosco di funghi: ma che cazzo di sapore sarà mai? - ora dovrebbe provvedere (smesso il ministro della paura, smesso sobriamente Cetto La Qualunque che sfilettava delfini) con i critici gastronomici - e le stelle e le stellette e i cappelli e le padelle e i coperchi e il mestolo: e due palle!, viene da abbaiare alla luna per la noia...

Magari si troverebbe pure qualcuno disposto a raccomandare le ricette di Apicio, quello della gastronomia nell'antica Roma - zozzerie genere talloni di cammello, intingoli di creste tagliate a volatili vivi, lingue di usignoli, di pavoni e di fenicotteri: ché il cibo è sacro, ma la stupidità umana intorno al cibo s'affanna da sempre. Una volta, il censo stabiliva la diversità umana e civile - a favore, si capisce, dei più poveri, che al pane erano costretti, se c'era, e il pane ha nobiltà irraggiungibile, come i maccheroni che Totò s'infila in tasca in "Miseria e nobiltà" - nobiltà, appunto...

Il ghiottone, inutile girarci intorno, e nonostante il corteggiamento mediatico e ruffiano del "wine&food" dovrebbe essere - nella decrescita che arriva, nella sobrietà professorale che avanza, un piatto di riso, con fermezza maoista (si scherza, però...) andrebbe consegnato - socialmente sanzionato, apertamente deprecato, indicato a dito. Elias Canetti, che delle cose importanti della vita tutto capiva, lo ha immortalato per sempre nelle pagine dei suoi diari ("La provincia dell'uomo", Adelphi): "Si sazia prima ancora di avere fame. Ha paura della sua fame (...) Disprezza coloro che non sono riusciti, qualsiasi cosa succedesse, a continuare a mangiare".

E poche pagine più avanti: "Chi mangia ha sempre meno pietà, e alla fine non ne ha affatto". Certo, si può essere anche meno severi, meno duri - e comunque Dante sempre il suo ghiottone, Ciacco, all'inferno lo scaraventa, "voi cittadini mi chiamate Ciacco: per la dannosa colpa della gola, come tu vedi, a la pioggia mi fiacco", e Boccaccio (questo Ciacco doveva essere piuttosto noto, e di incontrollabile appetito: tutti ne sapevano qualcosa, nonostante la deprecabile assenza di Antonella Clerici) così lo ritrae, "dato del tutto al vizio della gola, era morditore e le sue usanze erano sempre co' gentili uomini e ricchi, e massimamente con quelli che splendidamente e delicatamente mangiavano e beveano, da' quali se chiamato era a mangiare, v'andava, e similmente, se invitato non era, esso medesimo s'invitava, ed era per questo vizio notissimo uomo a tutti i Fiorentini" - praticamente un imbucato, come i tanti che affollano i buffet e i ricevimenti nella Roma sbracata e caciarona del secolo attuale.

Altro che stelle e stelline, un concorso andrebbe bandito: "Il Ciacco dell'anno", sarebbe un successone. E' funereo, il cibo, quando non è essenziale. Come quello nelle tombe dei faraoni. Come quello che viene usato da quattro uomini depressi e stanchi per suicidarsi nel capolavoro di Marco Ferreri, "La grande abbuffata", satollo di ostriche l'impotente Marcello Mastroianni, travolto dal water - che scoppia, non regge la portata. Meraviglioso racconto di un mangiatore all'opera, il signor Claudio, fa Gadda nel suo racconto "La buona nutrizione" (in "Accoppiamenti giudiziosi", Adelphi): "Taceva: non per ciò ne rimaneva inoperante la bocca.

Dotato di due stupende corone di denti bianchi, intatti, e di una lingua che non era quella di Eschine, oh no!, purtuttavia masticava e saporava a battisuola per dei quarti d'ora filati, mentre una salivazione copiosa interveniva all'atto, ad assistere la fatica molitoria. Maciullava senza misericordia quanto gli veniva fatto introdurre: con un impegno, con un puntiglio, che trasferivano ad operazione esemplare la mistica igienica dei Salernitani: ‘Prima digestio fit in ore'.

Certi medaglioncini di filetto...". E forse è vero quel che si dice - e per giorni e giorni, nelle librerie di Roma è risultato purtroppo introvabile, che il più bel libro sul cibo e sulla cucina italiana sia "Il ghiottone errante" (pubblicato dal Touring Club), scritto da Paolo Monelli, famoso giornalista del secolo scorso, buongustaio ed esperto enogastronomico, che attraversò l'intera Italia in compagnia dell'illustratore Novello, astemio "stomacuzzo ladro e mal di denti" - come un Don Chisciotte e un Sancio Panza alla rovescia. E' così essenziale, in fondo, il cibo, che non ci sarebbe molto da dire - o forse qualcosa sì, tant'è che la gola è peccato grande, peccato grave, peccato ignobile.

E avendo la più alta concentrazione di bambini obesi di tutta Europa - come rosei maialini se ne vanno rotolando qua e là, per parchi giochi e paninoteche, davvero la "grassezza fosse mezza bellezza", come spiegava Sophia Loren al bimbotto suo chiatto e balilla in "Una giornata particolare". Magari, chissà, nella sobrietà che arriva, pure i luoghi dell'ingozzamento subiranno un radicale ridimensionamento. Balzac poteva mangiarsi cento ostriche, anatre e agnelli, pernici e sogliole, e dolci e frutta - tutto insieme. E Buddha dalla pancia estrarre serenità e filosofia. Gli altri, con Ciacco - tutto quel fuoco, e nemmeno un pezzetto di arrosto da infilare nella vorace bocca.

 

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