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Andrea Scanzi per "il Fatto Quotidiano"
La superstizione è una credenza irrazionale. Accomuna ignoranti e intellettuali. Si affida a monili, abitudini, rituali. Dovrebbero portare fortuna. Nel calcio, ultimamente, pare avvenire il contrario. Giocatori, e più spesso allenatori, si ritrovano sconfitti da quella sfiga che pensavano di poter scacciare con un semplice abracadabra posticcio. Tragicomici e vinti. Cornuti (a volte letteralmente) e mazziati. I casi più recenti, molto diversi tra loro, sono Luis Enrique e José Mourinho. L'allenatore della Roma (per poco) è elegante, discreto. Colto o così parrebbe. Ha un concetto di difesa al cui confronto Zeman è un feticista della Linea Maginot, e ha perso già quattordici partite, però tutti lo stimano.
O lo stimavano. Prima di Roma-Fiorentina era l'unico non processato dai tifosi, dopo l'ennesimo rovescio di mercoledì non c'è più stata salvezza neanche per lui. Luis Enrique era lo spagnolo garbato, l'intellettuale con la mascella a sbalzo, il condottiero illuminato a cui dar credito in nome del "progetto" . à per questo, per l'innegabile contrappasso, che l'immagine che lo ritrae intento a fare le corna - come un Oronzo Canà qualsiasi - rischia di travolgerlo.
Se Antonio Conte bacia Padre Pio, e inneggia agli Dèi prima delle partite (per elemosinare il trionfo o anche solo la tenuta del trapianto sebaceo), nessuno lo nota. Rientra nel mantra, svilito e fatalmente respingente, del personaggio. Luis Enrique, no: lui non può affidarsi alla scaramanzia. Che, oltretutto, si è rivelata un boomerang. La Fiorentina ha vinto, lui ha annunciato l'addio e già Franco Baldini sogna di contrattualizzare Villas Boas: il "Mourinho buono", ovvero un ossimoro.
Per vincere, o anche solo per discorrere insieme di Shakespeare. Già , Mourinho. Sembrava tutto perfetto: il Barcellona che perde contro pronostico, Guardiola vicino ad abdicare, la finale a un passo contro un Chelsea decimato. Un match point, in apparenza concretizzato dal 2-0 sul Real Madrid dopo pochi minuti. Poi, inatteso, il rovescio. Robben, gli errori dagli undici metri, il tiro decisivo di Schweinsteiger. L'eliminazione. Se in Luis Enrique la scaramanzia è stata l'ultima mossa prima dell'abisso, in Mourinho ha comunque fatto parte della recita.
Quando Mourinho perde, l'obiettivo non è mai la rivincita: è spostare l'attenzione. L'arbitro, la sfortuna, il noto complotto dell'Unicef. La teatralissima decisione di assistere ai rigori in ginocchio, come un Buddha egocentrico, non intendeva attirare le simpatie astrali: più semplicemente, era il desiderio antico di calamitare le telecamere. Gli ha garantito attenzioni, non gloria. In finale c'è andato il Bayern Monaco, non il Real Madrid. Evidentemente corna e inginocchiamenti non vanno di moda al mercato degli allenatori. Urgerà aggiornarsi, puntando su riti apotropaici più ficcanti.
In siffatti tempi di magra, potrebbe comunque risultare utile rivolgersi a Trapattoni. Quando era ct dell'Italia, ai Mondiali 2002, era solito glorificare la panchina con l'acquasanta prima delle partite. A chi lo ritenne un gesto inaccettabile, quasi blasfemo o quantomeno improponibile, Trapattoni rispose serafico: "Non c'è nulla di male, me l'ha donata mia zia suora". Chissà se la parente avesse avuto una ferramenta: come minimo, il Trap avrebbe inseguito la buona sorte - che peraltro si guardò bene dal palesarsi - disseminando brugole e chiavi inglesi.
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