LA CANNES DEI GIUSTI - GRANDE INTERESSE E UN PO’ DI DELUSIONE PER IL FILM DI JAMES FRANCO

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Marco Giusti per Dagospia

Dopo "Jimmy P." Di Desplechin, tutto girato in inglese ci arriva un altro film "ammericano" diretto e prodotto da francesi. Si tratta di "Blood Ties" di Guillaume Canet, presentato fuori concorso (beh... gia' ci sono cinque film francesi in concorso...), remake americano di "Liens du sang" di Jacques Maillot, a sua volta tratto da un romanzo dei fratelli Papet, interpretato dallo stesso Canet e da Francois Cluzet.

Al loro posto troviamo Billy Crudup e Clive Owen, come Frank e Chris, due fratelli l'uno contro l'altro nella Brooklyn del 1974. Frank e' buono e poliziotto, Chris e' appena uscito di prigione, giura che si comportera' bene, ma sappiamo da subito che prendera' la strada sbagliata.

Non potra' fare molto ne' il vecchio padre, un grande James Caan e una brava sorella, Lili Taylor. E sono piuttosto delle vittime le tre donne che girano attorno a loro. Monica, cioe' Marion Cotillard, ex donna di Chris, che di professione fa la mignotta, Natalia, una Mila Kunis anni 70 notevolissina, sua nuova donna, e Vanessa, la Zoe Saldana di "Avatar", che ha un marito gangster bono in prigione, Mathias Schoenaerts, e cede a Frank innamoratissimoN che era il suo vecchio amore.

Canet, qui al suo quarto film da regista, che ha scritto assieme a un regista serio e importante come James Gray, che proprio a Cannes presenta in concorso "The Immigrant" ancora con Marion Cotillard, e vanta una ricca coproduzione franco-americana, 25 milioni di dollari, che coinvolge la stessa societa', la Worldview Entertainment, che ha portato a Cannes un pacchetto comprendente anche il film di James Gray e quello di Desplechin, fa tutto con estrema attenzione.

Ricostruisce bene la Brooklyn degli anni 70 dei film di Sidney Lumet, dirige bene il suo ricco cast, meglio le donne dei maschi, anche se Billy Crudup e' un attore di grande finezza, ma non riesce a mettere brio, azione, vitalita' in un polar che rimane sempre un po' gelido, senza alchimia.

Per due ore e venti seguiamo, alla fine, una storia che abbiamo sentito decine di volte, una gran quantita' di canzoni d'epoca, c'e' pure "Ritornero' in ginocchio da te" di Gianni Morandi, ma Canet non sa costruire l'atmosfera triste e rarefatta di James Gray, che in qualche modo imita, ne' riesce a accostarsi a i grandi polizieschi americani del tempo e neanche ai Jacques Deray o ai Carlo Lizzani in vacanza a New York degli anni 70. Il film non parte mai e Clive Owen non e' mai in grado di piacerci o di costruirsi un personaggio credibile. Aridatece Muccino ammericano, allora.

Grande interesse, ma anche un po' di delusione a Un Certain Regard per il terzo film da regista di James Franco, "As I Lay Dying', tratto dall'omonimo romanzo di William Faulkner del 1930, che vede il viaggio di una famiglia povera e contadina, un padre ottuso e cinque fratelli, per andare in citta', a Jefferson, a seppellire il corpo della madre.

E, durante il viaggio, un po' per sfortuna, un po" per ottusita' del capo famiglia, Anse Bundren, un Tim Blake Nelson senza denti, ne capiteranno di tutte. Uno dei figli, Cash, si ritrovera' una gamba massacrata dal tentativo di attraversare un fiume con il carretto, l'unica figlia, Dewey, Ahna O'Reilly, si rivelera' incinta, il forte Jewel, Logan Marshall-Green, bravissimo, perdera' il cavallo e rischiera' la vita per salvare la tomba della madre da un incendio, il più' saggio Darl, James Franco, finira' in galera. Il vecchio Anse vedra' la sua famiglia massacrata per i suoi errori e la sua ignoranza.

Complicatissimo da mettere in scena, a teatro ci provo' Jean-Louis Barrault e ne esiste una versione seriale televisiva americana del 1956, visto che il romanzo e' diviso in 59 capitoli narrati da 15 diversi narratori, e' stato completamente destrutturato da James Franco, che ne ha fatto, soprattutto nella prima parte, un film sperimentale, con lo schermo diviso in due e i singoli pensieri che spesso vengono fuori a commento delle azioni.

Gli attori sono anche portati a parlare in macchina. Quando il racconto si fa più piano e tradizionale, anche se si perde l'effetto dello split screen, il film funziona e gli attori, bravissimi, vengono fuori, anche se spesso sembra un po' un film alla ricerca di uno stile e di una nuova scrittura e non qualcosa di veramente compiuto.

 

 

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