DAGOREPORT – AVVISATE IL GOVERNO MELONI: I GRANDI FONDI INTERNAZIONALI SONO SULLA SOGLIA PER USCIRE…
Giuseppe Videtti per “la Repubblica”
Non è l’ora per una signorina di presentarsi a questo modo. Sono le dieci del mattino di sabato. Vienna ancora sonnecchia. Lei no, lei perfettissima nel suo tubino blu di Cina a pois sotto il ginocchio, la camicetta di crêpe che protesta per assenza di seno, calze coprenti, tacchi a spillo di vernice bianca. I capelli corvini le incorniciano il viso come due vele senza vento.
Le ciglia più lunghe di un cerbiatto; sembra di sentirle frusciare quando ammicca maliziosa per confessare una debolezza o due. Conchita Wurst, trionfatrice con Rise Like a Phoenix dell’edizione 2014 dell’Eurovision Contest, è composta e in ordine come una stenografa 2.0 al primo colloquio aziendale. Trasgressiva? Neanche per idea. Oddio, sì, la barba, di tre giorni, curatissima anch’essa. Mica fenomeno da baraccone come la Girardot nel film cult di Ferreri di cinquant’anni fa, La donna scimmia.
Conchita, al secolo Thomas Neuwirth, austriaca, ventiseienne, non è neanche la solita drag queen kitsch alla Ru Paul per intenderci, semplicemente un surrogato di bizzarria chic: più mondana di Gloria Vanderbilt quando parla dei suoi amici vip, Jean Paul Gaultier, Karl Lagerfeld o Carine Roitfeld, l’ex direttrice di Vogue France; più intensa della Mangano quando racconta dell’infanzia tormentata a Gmunden, il paesino natale; più esaltata di Shirley Bassey quando si parla di carriera e di canzoni e di interpretazioni.
«Ho avuto un solo idolo e un solo modello, Shirley Bassey», ammette subito. «Avevo otto anni quando fui fulminata da Goldfinger. Non capivo le parole, ma subivo il potere di quella donna, della voce, della gestualità». Fu la prepotenza alla Shirley, tanta voce e l’ardire di presentarsi come la prima drag barbuta del pop che l’anno scorso la guidò verso la vittoria. Quest’anno, come è consuetudine, farà da madrina alla manifestazione nella sua città, Vienna, pochi giorni dopo la pubblicazione, dopodomani, dell’atteso esordio discografico (Conchita, Ed. Sony Music).
«Sarà una performance esagerata, sto provando da una settimana», esclama indaffarata nel camerino del Wiener Stadthalle, dove il 23 si disputerà la finale (in lizza per l’Italia c’è Il Volo). «Per me la felicità è vivere qui a dieci metri dal palcoscenico, il posto che ho desiderato per tutta la vita», dice. «È esattamente quello che volevo, non mi sento a disagio in questa dimensione, anzi perfettamente in equilibrio. Mi godo il privilegio di una carriera fortunata ma anche di una intensa vita privata, senza ciglia finte e parrucche, quando spenti i riflettori torno a essere Tom».
Nella precoce autobiografia già tradotta in quattro lingue, Io Conchita. La mia storia , che Mondadori ha pubblicato l’altro ieri, Jean Paul Gaultier, che l’ha voluta in passerella, le scrive: «Se Madonna ha il corpo di una donna e lo spirito di un macho, tu hai il corpo di un uomo e lo spirito di wonder woman. Nessuno, prima di te, ha saputo annullare i confini tra maschile e femminile. Erede dell’avanguardia e della subcultura, sei riuscita a diventare un’icona popolare e in eterno un’icona della moda».
Conchita confessa che il libro è stata un’idea dell’editore. «Non volevo, ho ventisei anni, troppo giovane», mormora. «Ma alla fine sa una cosa? Mi ha fatto bene, ho imparato più cose su di me che in cento sedute di psicoterapia. Tornare indietro e cercare di soffermarsi anche sui più piccoli dettagli è un’operazione straordinaria. Per esempio ho capito perché sono attratta istintivamente da personaggi come Karl Lagerfeld e Vivienne Westwood: hanno lo stesso odore di mia nonna. Fu lei, come mia madre non smette mai di ricordare, a comprarmi la prima gonna».
L’infanzia non è facile quando il bullismo è dietro la porta di casa. Tom, fortuna sua, non si lasciò intimidire. Oggi Conchita ammette che fu proprio quel desiderio di stupire a salvarle la vita. «Gli sguardi degli altri non mi hanno mai messo in imbarazzo, neanche quando erano carichi di odio o di sarcasmo», dice abbassando lo sguardo, «li desideravo pazzamente. Fin da bambino mi piaceva farmi notare. Non farei questo mestiere diversamente. Oggi il mio motto è: datemi un tappeto rosso e io ci sono».
E infatti è ovunque: ai Golden Globe e da Givenchy, al Parlamento europeo e al Palazzo dell’Onu a Vienna. E, come già Lady Gaga, sarà la Queen alla guida del gay pride romano il prossimo 13 giugno.
«Oggi abbiamo un movimento agguerrito per la difesa di gay, lesbiche e transgender che ci tiene parzialmente al riparo da violenze e discriminazioni», dice. «Ai Golden Globe hanno presentato una dozzina di film a tematica gay; Bruce Jenner (atleta e attore americano poche settimane fa ha pubblicamente annunciato di voler diventar donna ndr) ha parlato apertamente della sua transizione: c’è ancora molto da fare, ma molto si sta facendo. Ovviamente, nel periodo della pubertà non avevo queste certezze.
Non saprei chi fu il primo ad accorgersi della mia diversità, se io o i miei compagni di scuola. I ragazzi hanno un sesto senso e, a un’età in cui tutti vogliono essere nel branco, la parola “diverso” equivale a un insulto. Basta che un ragazzino abbia dei riccioli biondi per essere chiamato frocetto. A quel punto o reagisci o soccombi. Superate quelle fragilità, quando ho cominciato a conoscermi meglio, non ho esitato a prendere posizione: ok, mi piacciono i ragazzi, la società mi condanna, ma non sono io a essere sbagliato, è la società. Fu un momento glorioso della mia giovane età, ma il coming out non fu né facile né indolore».
Dopo la vittoria all’Eurovision il vice primo ministro russo Dmitry Rogozin bestemmiò: «Ecco il futuro dell’Europa, una donna con la barba». Se avesse controllato su Twitter, avrebbe scoperto quanti milioni di russi, gay o gay friendly, andavano pazzi per l’artista.
«Fortunatamente Putin non governa tutto il mondo », esclama Conchita, «ma il bullismo non è certo scomparso ora che sono famosa. E poi siamo in due a reggere il colpo. Vede, da quando cominciai a travestirmi — Conchita ancora non esisteva — il personaggio che esibivo sul palco era sempre una persona distinta da Tom. Mi guardavo allo specchio e vedevo un’altra. E ancora oggi siamo in due: Tom il gay, e Conchita la drag queen. Tom soffre per gli insulti, a Conchita non importa un fico; davvero avete tanto tempo da sprecare per parlare di qualcuno che disprezzate? Grazie per l’attenzione! Quando ho iniziato questo mestiere ho subito capito che non sarei riuscito a tollerare i contraccolpi della popolarità, la totale invasione della privacy. Ho bisogno di separare i due territori, quello pubblico e quello privato, e in maniera netta. Ecco perché Conchita non ha mai ucciso Tom».
Si fa un gran parlare della sindrome di Garland, della solitudine degli artisti, delle gavette sfibranti, di tanto stress per un’ora di gloria. Non è il caso della Wurst. «A me piace chiudere la porta e starmene da sola», assicura. «Non ho ancora fatto conoscenza con il lato oscuro del successo. Per non cadere nel tranello cerco di non pendere dalle labbra degli altri, di fregarmene dei giudizi, di non passare notti insonni aspettando la recensione del giorno dopo, di non leggere gli insulti su questo o quel blog. Ho deciso di ignorare le umiliazioni e gli attacchi già molti anni fa. Lei penserà: vive sulle nuvole; ma questa è Conchita, concentrata su se stessa, motivata e determinata. Sono entrata a far parte dello show business a diciassette anni e ho imparato molto. All’epoca ero ingenua, cantavo in un club per venti persone e mi sentivo arrivata. Sbagliavo. Ho dovuto lavorare sodo per diventare una star. E ora se dovesse andar male pazienza, me ne torno da Tom».
La chiamano per la prova, il palcoscenico immenso acceso con tutte le luci del paradiso e cento comparse l’aspettano per un numero che si preannuncia strabiliante. Arrivederci, Conchita. O vuole che la chiami Tom? Tende cortesemente la mano, sulle lunghe dita virili sono piantate unghie rosso giungla. «Conchita!», esclama. «Conchita! Tom non si concia così. Non l’avrei mai fatta entrare nella sua noiosissima vita, che io adoro».
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