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GIÀ NEL 2005 CHÉRIF KOUACHI FACEVA PARLARE DI SÉ
Marco Imarisio per il “Corriere della Sera”
A dividere il ragazzo di banlieue che beveva birra e cantava il rap dal presunto assassino che imbraccia il kalashnikov adesso c’è un cratere. Il prima e il dopo di Chérif Kouachi finiscono e iniziano al civico 39 di rue Tanger, davanti a un cancello che nasconde i resti di un cantiere mai finito. I capannoni industriali che ospitavano la vecchia moschea Adda’wa del XIX arrondissement sono stati abbattuti nel 2006 e da allora i musulmani che rappresentano la maggioranza di questo anticipo di periferia pregano in quattro diversi garage del circondario.
Quando ci mette piede per la prima volta, dopo il Ramadan del 2001, l’uomo accusato di essere la mente della coppia dei fratelli presunti stragisti non conosce una sola parola di arabo. Orfano dei genitori, è cresciuto in una casa famiglia di Rennes, in Bretagna, dove ha ricevuto la normale educazione francese, fermandosi alla soglia del diploma di scuola media.
Arriva nella banlieue di Genervilliers ancora minorenne con il fratello Said, due anni più di lui, e da allora mette insieme una serie di piccoli reati che al tempo del suo primo processo per terrorismo gli valgono un profilo psicologico per nulla simile a quello del fanatico jihadista. «Fuma, beve, non porta la barba e ha un’amante fuori dal matrimonio contratto in giovane età». Ancora nel 2003 si diletta con il rap e i testi delle canzoni che sceglieva erano un inno al machismo, non certo al Corano.
Quello è l’anno in cui Chérif incontra uno strano personaggio che ha preso possesso dei capannoni di rue de Tanger mettendo fuori gioco i vecchi imam moderati. Si chiama Farid Benyettou, come lui è di origine algerina e si presenta come una specie di predicatore, non certo moderato.
La sua opera di proselitismo si traduce nella costruzione di una rete di aspiranti martiri per la guerra in Iraq, con annesso addestramento ideologico e pratico. La banda del Buttes Chaumont, i giornali la chiamarono così, per via delle riunioni all’aria aperta nel parco del XIX arrondissement che divide il quartiere arabo dalla zona turistica da La Villette. Il giorno fatale dovrebbe essere il 25 gennaio 2005, partenza da Parigi verso l’Iraq. I biglietti sono già pronti. Chérif viene arrestato dopo la data di partenza. È rimasto a casa, racconterà in seguito di aver mancato l’appuntamento.
Il più giovane dei fratelli Kouachi perde l’aereo e forse anche la voglia, almeno in apparenza. «Al nostro primo incontro mi sembrò addirittura sollevato. Mi confessò di avere avuto una paura folle di partire per davvero dopo tante chiacchiere». L’avvocato Vincent Olliver è uno dei professionisti più ricercati di Francia, almeno in questi giorni.
A processo riuscì a convincere i giudici ad attenuare la pena usando l’argomento del noviziato islamico di Kouachi, al suo debutto. Olliver ride alla domanda se avesse notato qualcosa di particolare durante l’incontro con il suo cliente alla vigilia della libertà condizionata dopo 18 mesi di carcere: «Si mangiava le unghie. Lo faccio anch’io».
Chérif è libero ma Parigi diventa una gabbia. I poliziotti dell’antiterrorismo lo tengono d’occhio. Porta la famiglia a Reims, lontano dagli occhi e dai controlli periodici, ma continua a gravitare nella banlieue della capitale francese.
Nel 2010 il suo nome spunta spesso nelle conversazioni intercettate di Djamel Beghal, condannato cinque anni prima per essere stato l’ideatore di un attentato, mai realizzato, contro l’ambasciata Usa in Francia e sospettato di essere il capo di una nuova cellula jihadista. Kouachi va più volte a trovare il nuovo maestro. L’antiterrorismo lo fotografa mentre partecipa a una partita di calcio tra aspiranti martiri. La magistratura lo definisce «allievo prediletto» di Beghal, che ha preso il posto del predicatore algerino con l’unica variante della Siria al posto dell’Iraq come destinazione ultima del viaggio.
Marce forzate ed esercizi fisici, ma non risulta l’addestramento con armi che avrebbe portato all’incriminazione. Le perquisizioni a Reims e Parigi danno magri frutti. Ci sono video di Al Qaeda mischiati a video pornografici, e molti libri di indottrinamento a senso unico. Nelle pagine di Statuto giuridico dell’infedele c’è una nota a margine scritta da Kouachi in francese. «Colui che abbandona la preghiera è un miscredente apostata. L’unica sentenza possibile è la morte».
Il ragazzo che cantava il rap è ormai stato sostituito dall’eterno allievo plasmato da due predicatori violenti. Ma non ci sono mai le prove del passo definitivo. La moglie, interrogata dai magistrati, racconta di portare il velo dal 2008, ma non per costrizione. Chérif dice invece che i suoi incontri con Beghal erano frutto della voglia di trascorrere qualche giorno in campagna.
Scriverà il giudice: «Nonostante il saldo ancoraggio all’Islam radicale, l’interesse dimostrato verso le tesi difensive della Jihad armata e la conoscenza di molti soggetti dell’inchiesta, non esistono prove dirette del coinvolgimento di Kouachi». Accanto a lui, in ogni passo dell’inchiesta, che verrà archiviata nel 2012, appare Said, il fratello silenzioso.
Spariscono entrambi, per riapparire la mattina del 7 gennaio. La meta finale di un viaggio cominciato sognando la Jihad internazionale è un ufficio nel centro di Parigi a pochi chilometri di distanza dal XIX arrondissement. Al posto dei capannoni di rue de Tanger doveva sorgere una moschea con una sala da preghiera da 1.600 posti, come si legge nel cartellone appeso al cancello. Era stata promessa ai fedeli per il Ramadan del 2010, poi per quello del 2011. Alla fine è rimasto solo il cratere.
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