DAGOREPORT – DANIELA SANTANCHÈ NON È GENNARO SANGIULIANO, UN GIORNALISTA PRESTATO ALLA POLITICA…
1. BENJI E FEDE - VIDEO
2. LA FABBRICA TEEN IDOL
Angelo Carotenuto per “la Repubblica”
La macchina della gloria non si spegne mai. Costruisce fenomeni su un pugno di rime leggere. Tu canti l’amore e quelli ti cambiano la vita. Un attimo prima sei un ragazzino, un attimo dopo ti chiamano idolo.
Gli ultimi ad accorgersene sono due giovanotti di Modena, Benji & Fede, 44 anni a sommare le loro età, un popolo di adolescenti che ingrossa le cifre del consenso. Sono arrivati alle 50 mila copie del disco di platino con l’album d’esordio ( 20: 05) aggiungendo alla catena del pop italiano un anello che mancava: il successo attraverso Facebook.
Sei anni fa, Benjamin Mascolo e Federico Rossi si scambiano un messaggio sul social - alle 20 e 05, ecco spiegato il titolo - e cominciano a suonare insieme. Chitarra e voce. Pagano 100 euro un paio di amici disposti a riprenderli con una videocamerina in cameretta e mettono tutto su YouTube.
Risultato: boom. «Postavano una foto e nel giro di qualche minuto erano già a 55 mila like» racconta Sara Andreani, alla guida dell’ufficio marketing della Warner Music Italy, l’etichetta di Laura Pausini e Nek.
È lei la prima a mettersi sulle tracce del duo venuto dal nulla, fino a scoprire che i ragazzi hanno un pubblico disposto a spegnere il pc, uscire di casa e seguirli per un evento in una piazza. Basta e avanza per un contratto, nonostante la loro diffidenza a causa di un’esperienza finita male, un produttore che premeva per farne i One Direction italiani.
Ogni settimana un discografico va a Modena: porta dischi da ascoltare, suggerisce esperimenti. Facebook diventa così trampolino e laboratorio: si assaggia l’umore e si fa propaganda. Cinquantamila copie dopo, in linea con il percorso tipico delle neo-star, come lo Zac Efron di High School Musical o la Martina Stoessel di Violetta, Benji & Fede arrivano pure in libreria ( Vietato smettere di sognare, Rizzoli), con un volume che racconta la loro ascesa.
Un Facebook stampato; grafica e colori come il social, il tono pure, con la condivisione di gioie e dolori. Oggi cinque dei 52 dipendenti di Warner Music Italy lavorano alla costruzione di questo fenomeno low-cost, un investimento da 60 mila euro l’anno.
Marco Alboni, il presidente, spiega che «l’interferenza di una casa discografica nella vita di un artista riguarda la visione del futuro. Il repertorio, i tempi d’uscita, la programmazione». Meno il look.
In sostanza, il ciuffo di Benji & Fede è lo stesso che porterebbero se non cantassero. La Warner gli ha solo chiesto di non tingersi i capelli prima di Sanremo, dove hanno accompagnato Alessio Bernabei. Fede li vuole platino. Meglio aspettare.
Vecchi meccanismi hanno trovato nuovi mezzi. Gli anni 60 sono quelli della perdita dell’innocenza di fronte alla discografia che si fa industria. Nel ’61 Nico Fidenco vede scartata a Sanremo Legata a un granello di sabbia, ma è un pezzo troppo solare per restare nei cassetti. Così, sfidando la consuetudine dell’estate come stagione di pausa totale, il disco arriva nei negozi a giugno. Sconvolge classifiche e abitudini.
Nascono le ricerche di mercato, nasce lo studio della fisionomia degli acquisti, fino a scoprire che i giovani comprano 15 milioni di dischi in un anno, il 70% del totale. Passo successivo: i teen idol. Più o meno mentre Umberto Eco si sta domandando a proposito della cultura di massa «se salga dal basso o sia confezionata dall’alto per consumatori indifesi» ( Apocalittici e integrati, 1964). Quando il pop lo chiamavamo musica leggera.
Gli archivi raccontano che per imporre un cantante la ricetta del 1964 era: quindici passaggi in radio, uno in televisione, l’ingresso nei juke-box, 25 mila nel Paese. A 16 anni Gigliola Cinquetti vince Castrocaro avendo in tasca un diploma di solfeggio. Ma il divismo esige la mitografia.
Così nascerà il personaggio della cantante che “non ha l’età”. Dopo la vittoria all’Eurofestival di Copenhagen, i giornali danesi si chiedono se quell’atteggiamento così marcatamente candido non sia in realtà costruito a tavolino: «Davvero è la bambina che nessuno ha baciato? ».
L’analisi dei fenomeni diventa smaliziata. Si scopre che il casco d’oro della ventenne Caterina Caselli è opera di un parrucchiere di via Montenapoleone, il Corriere parla di “prodotto creato per il consumo”. E quando la diciottenne Rita Pavone vende due milioni di copie di Pel di carota, l’opinione pubblica s’indigna perché le viene aperto il teatro greco di Taormina.
«Oggi esiste un approccio immediato alla cura del personaggio da parte dei discografici», ragiona Rita Pavone, dal geghegé poi cresciuta fino ad arrivare al varietà e alla prosa, «ma per i ragazzi è più difficile. Morandi e io avevamo alle spalle una gavetta di spettacoli in piazza, anni di rospi mandati giù. I nuovi fenomeni nascono fra belle luci, in bei teatri, con un bel pubblico.
Hanno più sicurezze che incertezze, mentre per sopportare il successo senza sentirsi immortali, bisogna aver conosciuto un momento buio. Se esplodi giovanissimo, dovresti darti la capacità di far crescere il tuo pubblico insieme con te. Si parlava del mio look da maschietto, molte ragazzine vestivano come me, con stivaletti e cravattina. Ma io me ne trovai uno da sola. Mi era piaciuto il taglio della Hepburn in Sabrina, e loro mi dissero: funziona».
Loro sono i discografici. Antonio Coggio lavorava alla Rca negli anni 70. È l’uomo che si è preso cura del diciannovenne Baglioni. Racconta: «La costruzione di un teenager di successo nasce da molte idee buttate via. Costruire, provare, scartare, ricominciare. La tv era un momento: noi cercavamo qualcosa che funzionasse anche dopo la sigla finale. Ieri tutto si basava sull’invenzione, oggi sulla riproduzione: se una cosa funziona, nascono i surrogati. Noi pensavamo alle locomotive, oggi si fabbricano vagoni».
Benji & Fede portano a modo loro una frattura. È un esordio di successo che nasce fuori dai talent e dal festival. L’ultimo a imporsi allo stesso modo fu il ventunenne Tiziano Ferro: quindici anni fa.
gianni morandi claudio baglioni 2
«La routine è nemica delle scoperte», dice alla Warner Marco Alboni, «un conto è il gusto, un altro il fiuto. Non possiamo rigettare lo spirito dei tempi sentendoci più avanti, non possiamo avere la pretesa di dettare un gusto. Sarebbe velleitario o nel peggiore dei casi il Minculpop».
3. FACCE IRRESISTIBILI E LOOK ACCATTIVANTE È LA RICETTA DEL POP
Giuseppe Videtti per “la Repubblica”
Alcuni muoiono, trascinati in una dimensione che li fa credere semidei. Altri, accecati dal successo fulminante, incapaci di rassegnarsi all’anonimato, si perdono in esistenze borderline. Molti appendono il nome a una sola canzone, indimenticabile, contagiosa, e ci restano appiccicati come insetti sulla carta moschicida, già a trent’anni sulla malinconica china dei revival show.
In tanti si sono dileguati senza lasciare traccia se non nell’unica generazione che li ha celebrati, passando più o meno indenni dal sogno alla realtà, dal palcoscenico all’autosalone, all’ufficio, o magari al nightclub di una nave da crociera.
Ma c’è chi ha resistito: successi immediati, trionfali; carriere longeve che hanno incrociato due, tre generazioni; adolescenti e post adolescenti da milioni di copie vendute che hanno schivato le manipolazioni dell’industria, le lusinghe dell’isterismo di massa, e hanno capitalizzato talento e creatività.
Non è vero che il fenomeno dei teen idol è indelebilmente legato alla cultura degli anni Sessanta. Ce n’erano prima, ci sono stati dopo, ce ne sono ancora. Nel primo dopoguerra erano quelli del cinematografo (le fan che nel 1926 deliravano al funerale di Rodolfo Valentino non erano tanto diverse dalle forsennate che aspettavano i Beatles da Ed Sullivan o allo Shea Stadium), poi arrivò Frank Sinatra e tra il pop e gli adolescenti fu amore a prima vista. E duraturo.
Per mesi New York fu ostaggio dei “Sinatra riots”; ogni giorno cinquemila ragazzine urlanti paralizzavano Times Square in attesa delle matinée del divo al Paramount Theater.
Nell’ottobre del 1944, complice la vacanza del Columbus Day, se ne radunarono trentamila in gonna plissettata e calzini bianchi a invocare il nome di Frankie, in lacrime, come tante vedove minorenni. Quanto era potente la musica, quanto trascinante lo swing e quale il potere di quegli occhi blu, di quel viso tagliente, di quel fisico fragile e scattante, dei completi eleganti?
Sono ingredienti inscindibili quando si parla di pop. L’interprete e la canzone: una cosa sola. Sinatra, Elvis Presley, Beach Boys, Beatles, Rolling Stones e Michael Jackson sono stati teen idol di razza, adorati, venerati, idolatrati, hanno avuto centinaia di cloni a far da cuscinetto nelle hit parade, quelli che gli americani chiamavano “one hit wonder”, un successo, e via nel dimenticatoio.
Ciuffo impomatato e faccia d’angelo: irresistibili. Non sarebbero andati da nessuna parte Pat Boone, Frankie Avalon e Ricky Nelson senza il corredo del sex appeal. Il povero Frankie Lymon, che lanciò Why do fools fall in love insieme al gruppo dei Teenagers (1956), a quattordici anni intrigava adolescenti bianche e di colore (come Sam Cooke d’altronde, che però aveva più solide basi musicali).
Non riuscì a gestirsi una carriera da adulto (per gli artisti afroamericani la strada era in salita); nessuno più ricordava il suo nome quando nel 1968 lo trovarono morto per overdose di eroina nella vasca da bagno della casa della nonna – aveva 25 anni.
La sostanza non è cambiata, passando dalla Motown (la più grande fucina di teen idol della storia del pop con uno slogan formidabile: “The sound of young America”) a Osmonds, Duran Duran, Spandau Ballet, Culture Club, Wham!, Backstreet Boys, *NSync e Spice Girls. Sono cambiati i tempi, le mode, i consumi, ma la ricetta del successo pop è la medesima. Una canzone arriva più facilmente agli adolescenti se l’interprete ha la faccia di Justin Bieber piuttosto che quella di Giovanni Caccamo.
Oggi, vittime della prepotenza dei talent e di giudici improvvisati, i ragazzi che puntano tutto sul pop si giocano la carriera in poche ore. Gli adolescenti scelgono da soli, in tv, pagandosi il televoto. In base al sex appeal, alle vicende familiari che sbandierano senza pudore, alle dinamiche mortificanti che si scatenano tra i concorrenti. La canzone è un optional, il talento altrove.
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