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Alessandra Comazzi per “la Stampa”
È una di quelle circolari interne che non si possono ignorare, arrivando dal vicedirettore generale della Rai, Antonio Marano. Riguarda tanti programmi, da «Quelli che il calcio» a «Che tempo che fa», e sancisce un divieto: introdurre la trasmissione con un’anteprima che le faccia da traino e nello stesso tempo serva a concentrare l’ascolto.
Un escamotage, se vogliamo, uno di quei tecnicismi televisivi in cui è campione Antonio Ricci. Anticipare, sforare, limare, sfumare, annunciare, spezzare il programma in modo che la concentrazione degli ascolti sia la migliore, la più soddisfacente possibile. Però Marano non era soddisfatto.
Perché?
«Perché mi sono stancato, e si è stancato anche il pubblico, della continua frammentazione dei programmi. Dovrebbe servire a razionalizzare gli spot, in realtà non fa bene né al programma né all’analisi complessiva dell’ascolto, che pure è importante».
Appunto: artisti, direttori, conduttori, tutti sono condizionati dai risultati dell’Auditel, proprio perché da essi dipendono le loro sorti. E adesso lei li spiazza così?
«Sono io che in questo modo penso al prodotto. Noi non possiamo tutte le volte trovarci davanti a questa spezzatura snervante, che non ha nessun senso creativo, qualitativo. Ma ha soltanto un risvolto comunicativo: poter dire che, se l’anteprima ha ottenuto qualche punto di share in più, lo ha ottenuto tutto il programma. È una questione di immagine».
Ma non è vero: sarà un escamotage, ma serve ad alzare gli ascolti, e visto che gli investitori pubblicitari decidono in base agli ascolti, non è importante?
«Le assicuro, questa divisione dei programmi in due, in tre, in più parti, serve soltanto alla comunicazione. Vorrà dire che cambieremo comunicazione noi, che diremo esattamente a che ora comincia un programma, e a che ora finisce. L’ascolto è quello che sta in mezzo».
È una regola che vale per tutti?
«E certo. Ho fatto una circolare comune. La regola non vale soltanto per programmi-contenitore, come “UnoMattina”, o “Domenica in”, che per loro natura sono divisi in segmenti. E tra un segmento e l’altro c’è il telegiornale. Questa è proprio una struttura ontologicamente diversa».
Come l’hanno presa, autori, conduttori, produttori?
«Non l’hanno presa bene, no. Ma possono stare tranquilli: noi, mentre lavoriamo sul presente, cerchiamo soprattutto di bloccare il futuro. Certo non è semplice: mi sento di dire che è un lavoro culturale. Cerchiamo di modificare una tendenza, di tornare all’essenza artistica del programma. Sono convinto che alla fine mi ringrazieranno».
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