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Ad accoglierlo c’era una platea religiosamente in piedi, in una sala Santa Cecilia strapiena. È così che puntualissimo, alle 21 spaccate, ieri sera il menestrello del rock si è presentato all’Auditorium, per la prima delle tre date nella Capitale del suo “Never ending tour”, che dal 1988 è ancora in corso. Nessun saluto, come da tradizione: a parlare è stata solo la musica, e al pubblico in visibilio è andata bene così. A rompere il ghiaccio le note di Things have changed, il brano grazie al quale Bob vinse un Oscar nel 2001. Ma a dispetto del titolo, Dylan sembra non cambiare mai. Forse è proprio per questo che piace tanto.
Marco Molendini per il Messaggero
Come trentaquattro anni fa: anche allora Bob Dylan restò tre giorni a Roma per cantare. Era la prima volta, se si esclude la leggendaria apparizione da sconosciuto menestrello al Folkstudio, nel 1962. Dunque, quella dell’84 era un’occasione speciale, come lo è questa che rappresenta il suo debutto italiano da premio Nobel. A quei tempi il suo nome era già circondato da buona parte delle leggendaria aneddotica a proposito del suo carattere ispido, un istrice capace di sciogliersi solo sul palco, ma non sempre, anzi allora meno di oggi.
Eppure fu in quell’occasione che nacque l’idea di fare incontrare l’uomo che soffiava nel vento con Federico Fellini. Idea sbocciata durante una cena dopo concerto, dove c’era l’impresario di quel tour, David Zard, dove c’era Carlos Santana, che divideva la scena con lui (ognuno con la propria band, si capisce, anche se il chitarrista si univa al collega per il finale coi bis) e dove c’era Daniela Barbiani, nipote di Federico e, in quegli anni, sua assistente.
E fu proprio Daniela a essere incaricata di riferire la proposta al regista, allora impegnato nella preparazione di Ginger e Fred. Fellini, che aveva grande considerazione di Dylan, amava i suoi testi ed era a suo modo lusingato dei riferimenti che Bob aveva fatto a proposito dell’influenza dei suoi film sulla sua produzione musicale, disse di sì con entusiasmo, e pure lui non era tipo facilmente disponibile a farsi coinvolgere: «Lo aspetto allo Studio 5 dì Cinecittà», propose.
IL RITROSO Anche Bob, il ritroso più famoso del rock, accettò, sia pure attraverso uno dei suoi abituali grugniti. Tutto bene, dunque. Solo che nessuno, attorno al menestrello non ancora Nobel, aveva avuto l’ardire di mettere a punto un piano per rispettare l’appuntamento a Cinecittà, fissato per la mattina del suo ultimo giorno a Roma. Quella notte Dylan fece tardi, tardissimo.
Si chiuse nella sua camera d’albergo e nessuno ebbe il coraggio di svegliarlo e, probabilmente, nessuno si è mai azzardato a farlo. Così, quando sua maestà il cantautore aprì gli occhi era troppo tardi, nel senso che non c’era più tempo prima della partenza. Fellini aspettava nello Studio 5 (nel ruolo vano che, qualche anno dopo, avrebbero avuto per lunghi mesi i membri dell’Accademia di Svezia, che avevano deciso di assegnare al più famoso degli autori musicali il Nobel per la letteratura), Bob se la prendeva (così ricordò a suo tempo Zard) con il suo entourage per l’occasione persa e mai più ritrovata.
Un’amicizia sospesa che adesso si può alimentare solo dei riconoscimenti reciproci, privati quelli di Fellini, pubblici quelli di Dylan che, nelle sue Chronicles, raccontò come La Strada e La dolce vita lo avessero fulminato appena sbarcato a New York nel 1960, quando scoprì quei film in un cineclub del Village: «Raccontavano la vita vista attraverso uno specchio carnevalesco ma senza mostrare strani mostri, solo gente normale vista in un modo strano». Mr. Tambourine man, così ha raccontato a dispetto di tutte le ipotesi sul testo ispirato dal mondo della droga (ma Bob oltre che impenetrabile è sicuramente un po’ dispettoso), una delle ispirazioni veniva da La Strada con la sua storia tragica su Gelsomina.
LA CITAZIONE E nella canzone Motorpsycho nightmare, altro pezzo dei primi anni ‘60, inclusa nel suo quarto album Another side of Bob Dylan, suggerito da un altro film, Psycho di Hitchcock, cita espressamente La dolce vita, riferendosi alla protagonista della storia, Rita: «She looked like she stepped out of La Dolce Vita» (sembrava che fosse uscita da La dolce vita). Sia Mr. Tambourine man che Motorpsycho nightmare, però, non fanno parte della scaletta dei concerti di Dylan, che ha debuttato ieri all’Auditorium e dove replicherà stasera e domani. Il Nobel menestrello non concede spazi alla memoria. Anche per questo nelle sue notti romane può dormire tranquillo, tanto più che Fellini a Cinecittà ha smesso di aspettarlo.
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