VIDEO-FLASH! - L’ARRIVO DI CECILIA SALA NELLA SUA CASA A ROMA. IN AUTO INSIEME AL COMPAGNO, DANIELE…
Silvia Ronchey per “la Repubblica”
Già negli anni Settanta alla Normale di Pisa si studiava la complessità abissale della sua opera e i rimandi a Whitman, Blake e Coleridge. Alla metà degli anni 70, alla Scuola Normale di Pisa, poteva accadere che un austero assistente di filologia classica invitasse uno o due studenti meritevoli a sedere compostamente nella Sala Musica, che disponeva come non tutti allora di un impianto hi-fi, per ascoltare fluire dal 33 giri il lungo, cangiante tessuto di strofe di Sad Eyed Lady of the Lowlands, apprezzandone parola per parola l’oscurità da ode pindarica.
I testi di Dylan erano pubblicati allora in uno spesso “paperback poeti” Newton Compton dalla copertina morbida, spesso usurata per la consultazione. Quei testi erano un thesaurus a sé, che andava confrontato, studiato e anche interpretato, non senza difficoltà, in un dibattito che ben prima dei tempi di internet attraversava i continenti e portava a congetture esegetiche a volte maniacali, come ad esempio quella sul significato (letterale o metaforico?) della “soglia” evocata in Temporary Like Achilles.
Già allora il corpus di Dylan era una “scrittura” e ciò che provocava in noi denunciava la forza di un classico. Nella distinzione crociana tra poesia e non poesia, nessuno di noi allora era sfiorato dal dubbio che quella non fosse poesia. Era poesia melica, destinata, cioè, ad essere cantata.
Analizzavamo i versi di Dylan non troppo diversamente da quelli di Pindaro. Anche i greci dietro le loro poesie avevano la musica. Chissà se nella fonetica degli antichi dialetti greci, nel vocalismo del dorico o dello ionico, si avvertiva qualcosa di simile al vertiginoso artificio della voce di Dylan, a quell’estenuarsi espressionistico della parlata dell’ebreo del Minnesota nella cantilena del black American, con le vocali che si allungavano e si stringevano in una prosodia spiazzante, in una metrica stridula e singhiozzante di lunghe e brevi che la musica sosteneva, ma non creava, perché a crearla era una volontà poetica.
Nella lirica monodica di Dylan, l’ebreo che cantava come un nero e faceva risuonare insieme le grida dei ghetti in fiamme e le sprezzature dell’upper class newyorchese, l’intera cultura americana partecipava coralmente. Era la sintesi di molte memorie: la cantilena del sud, dei lamenti degli schiavi, la voce ancestrale dell’Africa, da cui dipende com’è noto la melodia di Blowin’in the Wind; la tradizione dei folksinger militanti come l’amato Woody Guthrie, dei bardi erranti, dei vagabondi che percorrevano il paese dormendo sui treni e seminando le praterie di desolati blues;
ma anche le antiche radici letterarie europee, che fin dal nome d’arte, scelto in omaggio a Dylan Thomas, riandavano al romanticismo di Poe, all’imagismo di Pound, al flusso di coscienza di Joyce, a Eliot, a Brecht e Weil, più volte citati, ma anche a Rimbaud e Verlaine, entrambi esplicitamente menzionati, alla visionarietà mistica di Whitman, che sfocerà in testi propriamente profetici come All Along the Watchtower (ispirato a Isaia 21, 1-12), o misterici, come Isis.
BOB DYLAN PAPA GIOVANNI PAOLO II
Dylan era personalmente legato alla controcultura della beat generation, ma il suo approccio alla rivoluzione psichedelica attingeva di prima mano alle visioni dei grandi dionisiaci inglesi come Coleridge; e la passione per Blake è confermata dall’incisione, insieme a Allen Ginsberg, delle sue poesie musicate. In tutto questo, in quella che lui stesso ha definito un’arte “storico-tradizionale”, Dylan ha riunito la complessità abissale dell’America.
È non solo banale ma tautologico, e ciò nonostante vero, dire che in Dylan l’Accademia di Svezia ha voluto premiare l’unione inestricabile di cultura d’élite e di massa propria di una particolare America che taceva dai tempi di Steinbeck: non solo il pacifismo, non solo il ricordo dell’impegno politico degli anni del movement (più volte rinnovato: pensiamo alla versione di Masters of War ispirata nel ‘91 alla Guerra del Golfo), ma una lunga esperienza di ricerca di liberazione interiore e collettiva.
Il corpus di Dylan non è la colonna sonora del nostro tempo: i suoi testi sono preghiera, poesia liturgica, una liturgia delle ore che affiora nelle nostre vite e su cui almeno due generazioni, nel mondo di oggi, trovano un riferimento comune a valori riconosciuti cui fare appello. La comunanza mnemonica di quella dialektos, la condivisione di quella koiné liturgica contrassegna, del mondo di oggi, la più ampia delle élite: chi ha ascoltato Dylan, chi si è iniziato in vari gradi al suo bizzarro mistero, che si tratti di Andy Warhol o di Steve Jobs, di un professore di college o di un broker di borsa o di un homeless nero.
Il Nobel a Dylan è un evento epocale perché quali ne siano state le sue immediate intenzioni, nella contingenza politica attuale, è di fatto aderente all’intento testamentario di Alfred Nobel: premiare idee espresse in forma di parole che comprendano in sé con una forza universalmente liberatoria quello che deve restare, tramandarsi e salvarsi di un mondo e di un tempo. Cos’altro è la letteratura?
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