SOTTO IL NOME DI PLAGIO – QUANDO CON BRAIBANTI FINÌ ALLA SBARRA L’OMOSESSUALITÀ: IL ‘PROFESSORE’ VENNE CONDANNATO A 9 ANNI PER AVER “PLAGIATO” IL SUO COMPAGNO, CHE FU SBATTUTO DAI GENITORI IN MANICOMIO


Mario Baudino per ‘La Stampa'

E' stato l'unico, nella storia della Repubblica, a essere condannato per il reato di plagio, inteso ovviamente come la riduzione in proprio potere «e in totale stato di soggezione» di un'altra persona, come recitava la legge ereditata dal «Codice Rocco» dell'Italia fascista.

Venne in realtà incarcerato e processato in quanto omosessuale, e il giudizio cui fu sottoposto fra i ‘64 e il ‘68 rimane come il segno di un'epoca. In sua difesa insorse un movimento d'opinione per la cancellazione di un reato assurdo, che in ogni caso fu dichiarato incostituzionale solo nel 1981. Aldo Braibanti, primo e ultimo a subirne le conseguenze, condannato a nove anni in prima istanza, dovette scontarne due in carcere: mentre il suo compagno, benché maggiorenne, veniva rinchiuso in manicomio dai genitori, e «curato» con gli elettroshock.

Braibanti è morto nella sua casa di Castel'Arquato, in provincia di Piacenza, tre giorni fa, a 92 anni, e per sua volontà la notizia è stata resa pubblica solo ieri. Studioso di filosofia, poeta, artista, si definiva un libero pensatore; durante il processo era per i media «il professore», ma non ha mai insegnato. E' stato semmai un animatore culturale, con un passato politico importante.

Studente universitario a Firenze, partigiano dal 1940 con Giustizia e Libertà e poi nel Pci, fu arrestato due volte e torturato (e ironia della sorte, proprio questo aspetto della sua vita gli valse uno sconto di pena nell'assurdo processo). Era un dirigente di primo piano del Pci, ma presto abbandonò la politica attiva, radunando intorno a sé tra Roma a Castell'Arquato intellettuali e artisti, da Sylvano Bussotti all'allora giovanissimo Marco Bellocchio, con cui lavorò alla fondazione dei «Quaderni Piacentini», la rivista di punta nella cultura del ‘68.

Studiava le formiche e si dedicava ai collages, scriveva opere teatrali e sceneggiature, si misurò col cinema sperimentale. Intellettuale discreto e multiforme, era noto in una cerchia relativamente ristretta. Erano gli anni in cui l'essere apertamente gay suonava scandaloso, talvolta intollerabile. Si rischiavano i rigori della legge (come era accaduto anche a Pasolini). La sua fu però una vicenda particolare e complessa, proiettata sulla scena nazionale anche da un assurdo intrico di famiglia. Che non riguardava lui, ma il compagno Giovanni Sanfratello il cui padre denunciò Braibanti nel ‘64 alla Procura di Roma, accusandolo appunto di plagio. Era l'unica via giudiziaria possibile, dato che Giovanni aveva 24 anni, e dunque essendo maggiorenne poteva fare, almeno in teoria, quel che gli pareva.

I due vivevano insieme da tempo, dopo essersi incontrati nel laboratorio artistico «Torre Farnese», che Braibanti aveva nel suo paese del Piacentino. In rotta con la famiglia molto tradizionalista, il ragazzo si era trasferito a Roma col suo mentore, apertamente e senza nascondersi. Oggi sarebbero una coppia gay come tante. Allora, invece, fu avviata una lunga inchiesta, mentre il povero Giovanni Sanfratello veniva letteralmente prelevato dai famigliari e rinchiuso per due anni in manicomio. Fu una vicenda feroce e grottesca. Il giovane ne sarebbe uscito, dopo una terapia a base di elettochoc, con il divieto di leggere libri che non avessero almeno cent'anni.


Intanto l'inchiesta procedeva. Nel ‘67 Braibanti venne arrestato, e il 14 luglio 1968 arrivò la sentenza: nove anni di carcere per «plagio», ridotti a sette per i meriti partigiani, e a due un anno dopo, in Corte d'Appello. Giovanni Sanfratello aveva tentato in ogni modo, durante i processi, di scagionare l'amico, ma ovviamente non era stato preso in considerazione. Era un «plagiato», dunque non credibile.

A poco servì la mobilitazione di intellettuali come Moravia, Eco, Pasolini e di parte della sinistra, radicali e Marco Pannella in testa. L'omosessualità dichiarata era qualcosa di molto imbarazzante. Lo fu durante processo, e lo restò per molti anni ancora, quando tornato libero Aldo Braibanti, vittima esemplare di un'Italia feroce e bigotta, si rifugiò nel suo torrione e riprese il lavoro di sempre.

Non inseguiva il successo. Nel 2006 gli venne concesso dal governo Prodi il piccolo assegno mensile previsto dalla «legge Bacchelli» per il sostengo di personalità di alto profilo culturale in condizioni di estremo bisogno. Se di un risarcimento si trattava, arrivò tardi.

 

 

GIOVANNI SANFRATELLO COMPAGNO DI ALDO BRAIBANTI ALDO BRAIBANTI