DAGOREPORT - A CHE PUNTO È LA NOTTE DI CECILIA SALA? BUIO FITTO, PURTROPPO. I TEMPI PER LA…
Malcom Pagani per Vanity Fair
Affiorano ricordi lontanissimi, come se fosse ieri: «La carta da parati color avorio con i fiori che era nel salone della casa in cui ho vissuto fino all’età di due anni», «le ginocchia sbucciate, i pantaloni corti e le corse in bicicletta che facevo da bambina», «l’albergo sul mare del primo set in cui lavorai, a Camogli, per uno spot che poi non fu trasmesso. Mi avevano pettinato come Marilyn Monroe e di notte, le onde, sembravano entrare direttamente nella stanza». A 38 anni, Cristiana Capotondi ha scoperto che il caffè non le piacerà mai, ma che una sola spezia non le basta «e che il mio unico antidoto per combattere l’inquietudine è faticare. Mi sveglio caricata a pallettoni e fino a quando non sono finite le munizioni, sparo tutti i colpi a mia disposizione».
Poi come finisce?
«Sempre nello stesso modo: alla fine della giornata crollo addormentata su un divano. Non c’è un mio amico che non mi abbia visto dormire ovunque e all’improvviso, anche se intorno a me si svolgeva un rave party».
Come mai quest’ansia di spendersi?
«Non saprei dirlo, però so che mi sveglio e la casa è allagata io sono contenta perché posso mettermi all’opera e risolvere il problema. A volte, a forza di fare cose che non mi competono, mi faccio anche male. Mi è capitato di spostare una lastra di marmo in hotel perché non ero soddisfatta dell’arredamento e di farmela cadere sul piede fratturandomelo».
L’esperienza non le ha suggerito di calmarsi?
«Ferma non riesco a stare. Altrimenti la testa inizia a muoversi, arrivano i pensieri bizzarri e in un attimo mi trovo alla deriva. Il senso pratico mi aiuta a stare in equilibrio».
Cosa significa per lei andare alla deriva?
«Qualcosa che ho provato sulla mia pelle tutte le volte in cui non mi sono sentita centrata, tutte le volte che non ho detto quello che pensavo, tutte le volte che ho avuto la netta percezione di mettere a tacere una parte di me. Quando mi è capitato, ho sentito una sensazione di vuoto, di vertigine, di spavento».
Succede perché non troviamo mai le risposte giuste al momento giusto?
«La risposta giusta esiste sempre, il problema è che a tutti noi capita di negoziare con il compromesso e mettere in un angolo le nostre opinioni per piegarci a quello che pensiamo sia corretto dire o fare. Aver paura di esprimere il tuo pensiero per essere conforme a quello dominante è un vizio che ho sempre cercato di combattere. Diventare adulta, nel percorso, mi ha aiutato».
Che bambina era?
«Mi chiamavano Attila: il flagello di dio. Ero irruenta e vivace e credo di essere stata una figlia molto faticosa, però avevo le idee abbastanza chiare su quel che volevo fare e alla fine il desiderio dei miei genitori, un padre dolce e accogliente, una madre divertente e spigolosa, l’ho esaudito. Volevano mi laureassi. Tra la fine di un film e l’inizio di un altro, ormai quasi 15 anni fa, li ho accontentati».
Titolo della tesi?
« “Il cinema italiano durante il Fascismo”. Da Roma città aperta a Tutti a casa, ho visto decine di film».
E cosa ha capito?
«Che la storia vista dal basso restituisce un punto di vista prezioso sugli eventi. Sulle promesse, sulle ambizioni, sulle delusioni e sui tradimenti, degli ideali e non solo».
Che rapporto ha con il tradimento e con la delusione?
«Credo di aver ingannato qualcuno e di essermi mossa a volte animata da un sano egoismo, ma se ho mancato di rispetto e mi sono mossa maldestramente, non era per malafede. Cercavo una dimensione. Quando ti dimeni puoi essere maldestro e ferire, anche inconsapevolmente, ma non mi sono mai sentita innocente a prescindere. Sbaglio, cado imparo. E la volta successiva, facendo tesoro delle esperienze precedenti, cerco di comportarmi in un altro modo».
Pensava di diventare attrice?
«Io nasco a disagio: figlia di una famiglia di origine ebraica, mi hanno chiamata Cristiana affibbiandomi per imbarazzo un nomignolo, Titta, che mi sono portata dietro per anni. Dal mio punto di vista, volevo soltanto tre cose: crescere, diventare indipendente ed essere libera. Dimostrarmi speciale, almeno con un talento»
Ci è riuscita?
«Forse, con rammarico, ho un po’ deluso quell’ aspirazione e non sono stata capace di realizzare quell’idea di me stessa: libera, felice e indipendente. Quando avete fatto il vostro Festival, Stories, mi avete chiesto di concentrarmi su una storia da raccontare. Mi sono ritrovata a casa, le ho messe in fila e mi sono detta: “Tutto qui?”, Cosa è successo in questi anni?”». (Sorride).
Cosa è successo?
«Ho imparato ad ascoltare ad esempio. Parlo molto meno di un tempo, passo intere giornate in silenzio e ogni tanto mangio ancora da sola. Io, il piatto e il libro. Ma non lo trovo affatto triste».
Come si divertiva ieri?
«Da piccola recitavo e inventavo sfilate con le mie amiche. Tagliavamo le vecchie lenzuola e ogni tanto, inseguita dalle urla di mia madre, infierivo sulle tovaglie allo stesso scopo».
Si sentiva bella?
«Mai. Quella splendente era Chiara, mia sorella. Quando uscì Notte prima degli esami, scoprire di essere considerata carina rappresentò una novità assoluta. Avere difficoltà nella consapevolezza della mia femminilità però, mi ha permesso di cercarmi altrove. Ho provato a sviluppare altre qualità. E anche nei primi spot che ho interpretato, a iniziare da quello del gelato con Stefano Accorsi, non giocavo nel ruolo della bella. Se poteva essere una carta, non ci ho mai puntato».
Rivedere quegli spot che impressione le fa?
«Mi provoca una grande tenerezza, quasi uno struggimento. Ero un pulcino e anche se non tornerei mai indietro, a volte mi dico che se fossi stata tranquilla come lo sono adesso, me la sarei goduta di più. So che non è possibile: il tempo non lo puoi fermare. Non puoi tornare indietro».
Ha rimpianti?
«Al limite qualche rimorso, ma come le ho detto, quando capisco che sto per farmi male con la mente, mi metto in moto. Brigo, vado a nuotare, pulisco la casa. È quasi una malattia».
Le si riconoscono quattro storie d’amore in 38 anni. Un indizio di monogamia?
«Prima di incontrare l’amore della mia vita, Andrea Pezzi, conquistato con un bigliettino in aereo perché se non mi fossi mossa io, forse oggi non staremmo insieme, ho vissuto con un costante senso di mancanza, di vuoto. Quando cerchi la persona giusta sbagli delle cose volontariamente, per sperimentare e capire qual è il perimetro della tua felicità».
Dove l’ha trovato?
«Nel capire che non avrei mai potuto scendere a patti con l’aspettativa di un’altra persona accettando di vivere alimentando la mia necessità di possesso. Non si può fare ed è straordinariamente doloroso prenderne atto se non altro perché sai di avere a disposizione solo te stessa.
Siamo dotati di libero arbitrio e non è vero che siamo nati felici perché se il libero arbitrio ti permette di andare contro te stesso sperimenti il dolore. La felicità è una determinazione costante. Nel rapporto a due si tende a essere egoisti, la fortuna è trovare qualcuno che sia rispettoso di te, metta in luce gli angoli bui di una strada che c’è ma che tu non riesci a vedere. Andrea è la mia famiglia. Il mio amore, il mio miglior amico».
Una sua collega, Claudia Gerini, dice che lei può incarnare molte anime: “Può l’essere più angelicato del mondo e poi all’improvviso può scapparle un rutto”».
«È vero, è la mia anima maschile. E poi Claudia può dire quello che vuole. Mi conosce. La stimo. Nei film porta un grado di verità al quale non giungerò mai».
Lei non è mai stata possessiva?
«Se cerchi di possedere l’altro è perché ti manca un pezzo di te. Il talento è nel dare e nell’avere tenendo i due aspetti in equilibrio. Non dico sia facile, anzi. Forse è la cosa più complicata del mondo. Il problema è quasi sempre con noi stessi. In amore sei tu in relazione a ciò che sei e in relazione a ciò che neghi di te stesso».
Cosa invidia al maschio?
«La forza della visione e della costruzione. Se posso permettermi un paragone calcistico,i maschi conoscono la tattica. E la tattica non ha niente a che vedere con la tecnica».
Da poche settimane è diventata Vicepresidente della Lega Pro, la vecchia serie C. Quasi sessanta città, molte squadre storiche.
«Sono contentissima perché il calcio è un mondo che ho sempre amato molto e perché le storie che ho incontrato sanno di passione e attaccamento al territorio. Si srotolano da nord a sud, come in un film. Spero solo di poter lasciare un segno sulle deleghe a me affidate: formazione e digitalizzazione».
La prendono sul serio?
«Per ora faccio la giornalista. Vado da Imola a Catania e faccio domande. Prendo appunti sulla criticità, cerco di capire come la Lega che deve rappresentare una casa sicura e inclusiva possa essere di sostegno ai club, mi informo, inanello chilometri. Deve essere nel Dna di famiglia. Mia nonna, all’epoca delle guerra, incurante dei pericoli, faceva venti chilometri al giorno in mezzo alle campagne per portare il pane ai fratelli. I miei viaggi sono più comodi».
Si è pentita di aver incontrato Fausto Brizzi?
«Nient’affatto. Qualcuno ha avuto il coraggio di rimproverarmelo, ma non me ne importa niente. Fausto è un mio amico. Lo era ieri e lo sarà domani».
nunzia de girolamo francesco boccia con cristiana capotondi e andrea pezzi
Brizzi è stato accusato di molestie e poi assolto, che idea si è fatta di quella vicenda?
«Se Fausto ha avuto degli atteggiamenti sbagliati, non ha trovato in me quella che non glielo ha fatto notare. Ma mantenere un confronto è appunto una questione di amicizia. Parlando si può cambiare, diventare migliori, ragionare assieme. Fausto, questo percorso, lo sta compiendo».
Il Metoo è stata una falsa rivoluzione?
«Non è un movimento da condannare. Non è un movimento da condannare. Ha sicuramente acceso una luce, ma non mi sembra che onestamente abbia comportato grandi cambiamenti e soprattutto, nel voler mettere alla gogna e nel fare morti e feriti, si è distratto dall’obiettivo principale: lavorare affinché la vita delle donne, di tutte le donne, non solo di quelle dello spettacolo, potesse uscire migliorata da quella storia. Il Metoo avrebbe dovuto saper parlare a tutti, anche al maschio.
Perché anche al maschio, anche se in misura minoritaria, può capitare di ricevere attenzioni indebite da donne in posizione di potere. E invece nell’ossessione conformista degli inizi, il fuoco incrociato era unidirezionale ed era diventato sessista persino dire buongiorno. A me uomini contro donne è un gioco che non interessa».
Uomini e donne sono oggi più vicini o più lontani?
«Io penso siano un po’ più distanti: abbiamo cercato di fare una battaglia di genere mentre era una battaglia semplicemente di rispetto del genere umano. Bisognava ragionare sugli effetti della proteina del potere, sul senso di onnipotenza che coglie chiunque assurga a una posizione di comando. È diventato altro. Peccato».
Cosa pensa di Asia Argento?
«Il problema non è Asia Argento, su cui non ho un’opinione, ma l’effetto delle scelte individuali e il grado di violenza che c’era nella modalità comunicativa del Metoo. Si dirà “era violento perché era violenta la sopraffazione”. È un argomento che non mi ha mai persuasa: alla violenza non si risponde con la violenza, ma con la cultura e con la formazione».
Dove si vede tra vent’anni? Magari nel ruolo di regista?
fausto brizzi cristiana capotondi al ristorante
«Ho girato un documentario sul Corriere della Sera e ho rotto così le palle ai giornalisti che alla fine, il direttore di allora, De Bortoli, mi chiese se dovessi firmarmi il praticantato. Girare un film mi piacerebbe, ma ancor di più mi piacerebbe vivere al mare».
Intanto continua a recitare: il suo prossimo film, Attenti al gorilla, con Frank Matano, sarà al cinema dal 10 gennaio.
«È una commedia molto carina in cui dopo la separazione, mi vorrei risposare con Francesco Scianna, un medico che sogna di costruire una famiglia con dei figli».
Lei continua a non averne. Ha cambiato idea?
«La vita è lunga e con Andrea ogni tanto ne parliamo. Ma sono diventata zia e sul tema, le dico la verità, ho un totale senso di appagamento. L’equilibrio perfetto. Perché alterarlo?».
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