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SERGIO MATTARELLA E QUENTIN TARANTINO
Steve Della Casa per "la Stampa"
Forse il maggior riconoscimento italiano per Quentin Tarantino è datato giugno 2015, quando il regista americano viene in Italia per partecipare alla cerimonia dei David di Donatello e per ritirare le statuette da lui vinte in precedenza senza però averle ritirate. Negli austeri saloni del Quirinale, come ogni anno, il presidente della Repubblica riceve i premiati e per Sergio Mattarella è una delle prime uscite pubbliche, essendo stato eletto pochi mesi prima capo dello Stato.
Al Quirinale c'è tutto il cinema italiano, ma Tarantino gode di una particolare attenzione. E a sorpresa Mattarella, nel suo discorso, si rivolge proprio a lui: «Anche se lei ci imprestasse il signor Wolf, caro mister Tarantino, risolvere i problemi della crisi economica non sarebbe così facile». Un'uscita inattesa, che suscita sorpresa, divertimento e anche un po' di invidia. Ma anche un ennesimo riconoscimento di quanto Tarantino abbia modificato la storia del cinema con Pulp Fiction e con i suoi film successivi.
Nel 1994, quando per la prima volta Pulp Fiction fu presentato nella sala grande del palazzo del cinema al festival di Cannes, la sorpresa era davvero percepibile. Quel pubblico, composto per lo più da critici cinematografici scafati, smaliziati e anche un po' supponenti, aveva seguito le proiezione in un silenzio totale, interrotto da qualche risata, da qualche gridolino di orrore (quando Uma Thruman va in overdose, quando il poliziotto maniaco inizia il suo «divertimento») e da un applauso a scena aperta, quando un John Travolta un po' imbolsito si dimostra ancora ottimo ballerino, ballando con la Thurman sulle note di You Never Can Tell di Chuck Berry.
Già stupire un pubblico così era un obiettivo impensabile, e la cosa fu notata. Ma la vera novità che portava Pulp Fiction riguardava due aspetti: la «nuova cinefilia» di Quentin Tarantino e la totale destrutturazione del racconto. Partiamo da quest' ultimo aspetto. Non è un caso se Tarantino è stato l'autore più amato dalla cosiddetta generazione dei «cannibali» letterari, quelli che nel 1996 furono per la prima volta definiti «gioventù cannibale» nell'omonima raccolta curata da Daniele Brolli.
Andrea G. Pinketts, ad esempio, fece un'appassionata lettura «tarantiniana» di alcuni fatti di cronaca nera durante un festival di letteratura e cinema a Courmayeur e Aldo Nove ha più volte riconosciuto quanto Tarantino abbia influito sul suo modo di raccontare. Ma il fenomeno, ovviamente, è stato mondiale. Fino a quel momento, in letteratura così come nel cinema, il flashback era considerato uno strumento pericoloso, da maneggiare con grande cautela.
La grande considerazione nei confronti di Stanley Kubrick e di Billy Wilder, ad esempio, nasceva anche dal fatto che avevano saputo padroneggiare il flashback, rispettivamente in Rapina a mano armata e Viale del tramonto, e prima di loro Orson Welles aveva sdoganato quell'espediente narrativo in Quarto potere. Ma si trattava di racconti lineari, nei quali il flashback era dichiarato.
Invece Tarantino salta avanti e indietro nei tempi della narrazione, apre parentesi, fa pronunciare ai suoi personaggi dialoghi apparentemente senza significato, ma che poi si rivelano decisivi. Usa spregiudicatamente ogni espediente possibile per stupire lo spettatore, per sconvolgerlo, per demolirgli ogni certezza.
Sembra dire: oggi per narrare bisogna fare così, bisogna combattere la sensazione del già visto, del «so come andrà a finire». In fondo, la sua è una critica serrata del postmoderno, creata con gli stessi elementi dei questa corrente culturale. E qui veniamo alla concezione tarantiniana della cinefilia. La passione maniacale per il cinema, per tutto il cinema, è un tratto cresciuto in maniera esponenziale nel secondo dopoguerra, prima in Francia con i giovani redattori dei Cahiers du Cinéma e poi in tutto il mondo.
Le citazioni, le allusioni, gli ammiccamenti sono diventati un fenomeno costante soprattutto dagli Anni 70 in poi, quando si è diffusa la cultura del remake. Sono innumerevoli i registi che, presentando il loro film, dichiarano di essersi ispirati a questa o a quella pellicola del passato, a quel determinato attore o a quell'attrice.
Anche Tarantino non farà mistero di avere delle fonti ben precise: più tardi dirigerà lo stupendo Bastardi senza gloria, remake dichiarato di Quel maledetto treno blindato di Enzo G. Castellari, e Django Unchained, riprendendo a modo suo la vicenda del Django di Sergio Corbucci.
Ecco: a modo suo. Perchè la forza di Tarantino è che in tutti i suoi film il cinefilo può riconoscere allusioni, citazioni, ispirazioni. Però la cosa finisce lì. In Pulp Fiction chi aveva visto La febbre del sabato sera capisce che John Travolta è stato scelto per quella scena proprio perché era il ballerino scatenato di quel film. Ma coloro (sicuramente la maggioranza) che quel lontano film diretto da John Badham non lo conoscono affatto si divertono lo stesso come dei pazzi).
E questo è proprio il tratto nuovo che Tarantino conferisce alla storia del cinema: si può e si deve fare riferimento al passato, ma questo va fatto non con nostalgia ma con gli occhi e la sensibilità dell'oggi. Bisogna saper raccontare per un pubblico nuovo, non per vecchi che rimpiangono i bei tempi andati. Bisogna prendere ispirazione, non fare dei calchi. In fin dei conti, 35 anni prima di Pulp Fiction un altro grande innovatore aveva fatto la stessa cosa.
In Fino all'ultimo respiro Godard immaginava Belmondo passarsi il pollice sul labbro proprio come faceva Bogart, e aveva dedicato quel film apripista della Nouvelle Vague che fu presentato anch' esso a Cannes alla Monogran Pictures, piccola produzione americana specializzata in b-movies. Il film di Godard segnò una svolta nella storia del cinema, così come Pulp Fiction. Sarà un caso se Tarantino aveva denominato la sua società di produzione A Band Apart, storpiando volutamente il titolo di un film di Godard? -
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