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Olga Noel Winderling per GQ Italia - www.gqitalia.it
Kea Wilson vive di libri nel Missouri. Li vende, tiene corsi in cui insegna a scriverli. E ora ne ha pubblicato uno lei stessa, We eat our own. La trama: nel 1979 un attore americano viene chiamato nella foresta amazzonica da un regista italiano folle, Ugo Velluto, per girare un horror tra i cannibali. Scoprirà che le violenze vanno ben oltre la finzione.
Per gli appassionati del genere, la citazione è lampante: dietro Ugo Velluto traspare Ruggero Deodato, il regista romano che proprio nel ’79, in Amazzonia, girò Cannibal Holocaust, il film più controverso di tutti i tempi, sospettato di essere uno snuff movie, censurato ovunque, che costrinse Deodato a presentarsi in questura con gli attori per dimostrare di non averli uccisi.
Ma, anche, il primo film della storia girato con la tecnica del falso documentario, il più visto in Giappone dopo ET, osannato in Francia, amato da Quentin Tarantino, un cult internazionale che continua a conquistare nuovi fan. Tra cui, appunto, una libraia 29enne di St. Louis. «Tutto quel sangue, gli stupri, gli sbudellamenti nascondono un’opera sovversiva che fa riflettere sull’etica e sulla violenza», dice Kea Wilson. «Su come andarono le cose sul set ho letto il possibile, ma poi ho usato l’immaginazione per riempire le lacune, che restano molte».
LUCA BARBARESCHI IN CANNIBAL HOLOCAUST
Una fiction nella fiction, insomma. Quanto a ciò che avvenne davvero, a 37 anni di distanza è arrivato il momento di bussare alla porta di Ruggero Deodato, noto come “Monsieur Cannibal”. Lui vive in un appartamento luminoso ai Parioli. È un signore di 77 anni, con i capelli bianchi, gli occhi allegri e lo stile sobrio. Tutto il contrario di quello che si aspettava la moglie di Joe Dante quando l’ha conosciuto («Niente piercing né tattoo? Non puoi essere il regista di Cannibal Holocaust!»).
Nell’immaginario, in effetti, funziona meglio un tipo alla Dario Argento, l’altro regista italiano “di paura” idolatrato all’estero: «Mi saluta da poco», racconta Deodato. «I suoi ultimi film non mi sono piaciuti. In ogni caso, fa un genere che non amo». Di non frequentare l’horror, e di girare film realistici, l’ha sempre detto. Dopo commedie come Gungala la pantera nuda (1968) o I quattro del pater noster (1969) ha realizzato La casa sperduta nel parco (1980), sul massacro del Circeo.
Quest’anno invece ha presentato al festival di Lucca Ballad in Blood, storia rivisitata di un altro delitto famoso – «che non si può dichiarare per questioni legali» – in cui una ragazza, un ragazzo e un giovane di colore trovano la loro coinquilina assassinata. In mezzo, lo strano caso di Cannibal Holocaust, storia d’invenzione presentata come verità e ritenuto il suo capolavoro.
«La trama era forte», racconta. «Quattro fotoreporter vanno in Amazzonia per girare un documentario sui cannibali. Dove non trovano scoop, li creano. Dopo la loro scomparsa, un professore va a cercarli: troverà invece i filmati che avevano realizzato, da cui scoprirà quello che erano riusciti a combinare». Per rendere il tutto realistico, la pellicola del finto girato che occupa la seconda parte del film venne graffiata, come sarebbe accaduto effettivamente durante un viaggio travagliato.
Per dare credibilità all’intera operazione, Deodato scelse come protagonisti quattro giovani sconosciuti, in grado di recitare in inglese per puntare al mercato internazionale e disposti per contratto a non accettare altri incarichi entro un anno dall’uscita del film. L’idea era che non si facessero vedere troppo in giro, per alimentare il sospetto che – dopo tante violenze agite – fossero stati uccisi sul serio dagli indios a Leticia, un angolo di foresta pluviale al confine tra Colombia, Brasile e Perù.
Nel ruolo dei fotoreporter: «Luca Barbareschi; Perry Pirkanen, buono come il pane; Gabriel Yorke, che incontro ancora alle convention. E Francesca Ciardi, figlia di un prefetto e di una nobildonna, amica di mia sorella: mai recitato in vita sua, ma diversamente dai giovani dell’epoca aveva viaggiato, era tosta. “Porta me”, mi disse. “Sicura?”, risposi.
“Guarda che ho in mente un film tremendo, voglio fare di tutto e di più”». Un budget di 180 milioni di lire, sei settimane in Amazzonia (più una finale a New York), una troupe di 15 persone che procede a canovaccio. «Inventavo di giorno in giorno», riprende Deodato. «Per esempio, la guida locale che procurava le comparse mi diceva: “Domani c’è una donna incinta”, e io immaginavo come ucciderla (a colpi di pietra, ndr).
Oppure chiedevo allo scenografo, Antonello Geleng: “Inventati un modo per impalare la ragazzina che abbiamo violato l’altro giorno”». Il modo – un palo a terra, un sellino di bicicletta su cui far sedere la ragazza, con un paletto appuntito in bocca – divenne la scena cult di Cannibal Holocaust. Intanto, al MIFED di Milano, ai tempi la più importante fiera di audiovisivi, il produttore romano Franco Palaggi faceva la sua parte: «Gli mandavo via via il girato, lui lo mostrava ai compratori e mi telefonava: “A Ruggé, ammazza chi te pare! Qui stiamo vendendo tutto come bruscolini”».
Sul set, però, non tutto filava liscio. «Nei panni del professore c’era quel Robert Kerman di New York, tremendo. Quando ho saputo che in realtà era un attore porno ci sono rimasto malissimo. Era proprio cattivo e sobillava gli altri attori». Di certo c’è che, prima di una scena di sesso piuttosto forte, Francesca Ciardi invitò Gabriel Yorke a non farsi manipolare dal regista.
E che l’idea di ammazzare gli animali sul serio non piacque a tutti. «Allora», specifica Ruggero Deodato, «si trattava di un maialino, di uno strano topo, di alcune scimmie e di una tartaruga, che la guida ha poi consegnato alla gente del posto e che laggiù si mangiano».
Quella stessa guida organizzava anche incontri tra gli indios peruviani, carichi di cocaina, e gruppi di turisti che dopo la consegna della roba sparavano agli indigeni sulla strada del ritorno. «L’ho denunciato. Quando è uscito dal carcere, mi ha fatto sapere che mi avrebbe ammazzato».
Altri problemi legati al narcotraffico? «Diversi. Un giorno ho beccato uno della troupe con lo sguardo allucinato, convinto d’essere finito nello specchio. Su un altro set, in Venezuela, una segretaria e uno scenografo hanno anche provato a passare la dogana con un pappagallo imbottito di droga: lui poi si è tirato indietro, ma lei ha passato mesi nel carcere femminile di Caracas».
A Roma, quando Sergio Leone vide Cannibal Holocaust in anteprima, disse a Deodato: «La seconda parte è un capolavoro. Ma questo film ti porterà tanti di quei guai». E i guai arrivarono subito. Il regista ancora si inalbera: «L’avevo detto, di iniziare iniziare la distribuzione su piazze minori, dove c’erano giudici più accomodanti. Invece quel cretino della United Artists che fa? Nel febbraio del 1980 lo fa uscire a Milano».
Ruggero Deodato fu costretto a presentarsi in questura con Luca Barbareschi («Gli altri attori erano negli Stati Uniti, Francesca preferì non venire») per dimostrare che gli omicidi erano una finzione. Ma alla fine fu condannato comunque a quattro mesi, con la condizionale. «Si sono attaccati alla storia degli animali», racconta, «appellandosi a una legge del ’36 che vietava la corrida in Italia».
Censurato ovunque, il film ebbe grande successo in Francia e in Spagna, dopo che la rivista Photo aveva dedicato al film un servizio in cui smentiva definitivamente il sospetto che si trattasse di un documentario. In Italia arrivò in versione integrale nel 1984.
«Ma ormai era una storia finita. Finché, nel ’99, è uscito The Blair Witch Project e qualcuno ha scritto che, in realtà, l’idea di girare un film come se si trattasse di una storia vera, con lo stratagemma delle pellicole ritrovate, l’aveva avuta un regista italiano molto tempo prima. Da allora c’è stata una specie di consacrazione. Di recente una produttrice americana mi ha perfino chiesto di pensare a un seguito: chissà che il libro We eat our own di questa Kea Wilson non possa darmi lo spunto».
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