DAGOREPORT - BENVENUTI AL “CAPODANNO DA TONY”! IL CASO EFFE HA FATTO DEFLAGRARE QUEL MANICOMIO DI…
Anticipazione stampa da Vanity Fair
Superare il Pd «sarà inevitabile. Io propongo di andare alle Europee con una grande lista – che si chiami Fronte popolare o Fronte progressista importa poco – che il Pd contribuisca a fondare. La mia scommessa non è candidarmi alla segreteria del Pd, ma dare un contributo affinché che il superamento del Pd sia fatto in modo intelligente. Se non accadrà entro l’inverno mi ritirerò dalla vita politica».
Carlo Calenda affida il suo aut aut a Vanity Fair, che pubblica l’intervista all’ex ministro alla vigilia dell’uscita del suo nuovo libro per Feltrinelli, Orizzonti selvaggi. La sinistra italiana, dice, rischia di estinguersi se non sa dare un’identità nuova «a una comunità che si disse orgogliosamente comunista fino alla caduta dell’ultima pietra del Muro di Berlino e liberista dal minuto successivo, senza nessuna elaborazione culturale».
Duro il giudizio sui compagni di partito, da Renzi («A volte è un po’ puerile») all’ostilità che gli è riservata dentro il Pd: «Mi sento detestato. Non mi hanno mai coinvolto in niente, mi hanno preso in giro per aver cercato di organizzare una cena... Ma lei lo sa cos’è il partito a Roma? È un posto in cui non ti avvertono delle riunioni pensando di farti un dispetto. Un luogo in cui personalismi, odi e rancori la fanno da padroni. Un posto in cui persone che hanno promosso un referendum costituzionale, pur tragicamente sconfitto, ora non riescono a sedersi insieme in una stanza. Capisce la follia delirante, la presunzione, l’arroganza? Mentre le onde della modernità ci vengono addosso, i circoli romani sono dominati dall’appassionante dibattito tra renziani e antirenziani. È una guerra per bande che deve finire».
Altrettanto severa, nell’intervista a Vanity Fair, l’opinione di Calenda sulle risposte che il Pd ha dato ai nuovi protagonisti della politica italiana. Luigi Di Maio: «Lo irrisero sostenendo che uno che vendeva bibite allo Stadio non potesse presentarsi come capo del governo. Una follia. La politica non è un colloquio di lavoro, ma vive da sempre sull’identificazione: una delle cose più potenti che esistano. Alla gente non importa niente se Di Maio sia bravo o meno, ma che sulla sedia ci sia uno di loro».
E Matteo Salvini: «Quando Salvini va in piazza e dice “vi capisco quando mi dite che vi fa paura avere 30 nigeriani in giro per il vostro paesino”, la reazione non può essere “voi siete razzisti”. Se la risposta della sinistra è questa, la sinistra è morta. Salvini è il sintomo, non la causa. I razzisti esistono in tutte le società e al limite la responsabilità di Salvini è quella di sdoganarli».
Calenda si definisce passionale («Vedo le cose bianche o nere e quando esprimo un’opinione tendo a essere arrogante, però credo fermamente nella passione») e nemico del cinismo («Un certo cinismo, quello degli intellettuali che con disincanto dicono “tanto la politica è immutabile”, non mi appartiene. È lo stesso snobismo che spingeva Gianni Agnelli ad affermare che l’amore fosse una cosa per cameriere. Una frase detestabile»), e nell’intervista a Vanity Fair si racconta anche nel privato.
Di quando a 16 anni divenne padre di sua figlia Tay proprio nello stesso periodo cui venne bocciato in prima Liceo: «Ho smesso all’improvviso di indossare i panni dell’insopportabile anarchico scapestrato indisposto a seguire le regole e superata la paura ho provato a diventare uomo». Di sua madre Cristina Comencini: «Con lei ho un rapporto forte e conflittuale, perché gli artisti sono insopportabili ed egotici almeno quanto i politici».
Del nonno Luigi, che lo fece esordire nel Cuore tratto da De Amicis a 11 anni: «Era molto forte e tenero, lottò per più di tre decenni contro il Parkinson». E di sua moglie, recentemente alle prese con una grave malattia: «Ho deciso insieme a lei di rendere pubblico il suo male perché avevo preso l’impegno pubblico di presentare il Fronte in giro per l’Italia. Non ci potevo andare, ma mia moglie, la persona più coraggiosa che conosca, mi ha detto: “Perché inventarci delle scuse, la malattia non è una colpa”. Non abbiamo scelto di nascondere le cose, ma neanche metterci su un Truman Show. La lotta riguarda noi e basta».
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