DOMANDE SPARSE SUL CASO ALMASRI – CON QUALE AUTORIZZAZIONE IL TORTURATORE LIBICO VIAGGIAVA…
Vittorio Zucconi per “la Repubblica”
Dietro la foto della “strana coppia” Donald Trump e Matteo Salvini, dietro l’apparenza incongrua dell’incontro fra un supermiliardario di Manhattan e il leader di un partito italiano fiorito in Brianza, c’è la sostanza della stessa preda elettorale alle quale entrambi puntano: la ribellione confusa, informe, generica, ma formidabile di grandi strati dell’elettorato contro tutto ciò che sembri “establishment”.
Quell’establishment, quella casta, che i militanti del “Trumpismo”, come quelli del “Grillismo”, del “Sanderismo”, del “Salvinismo”, del neofascismo galoppante in Austria, in Francia, nell’Est d’Europa, accomunati dalla stessa rabbia sorda e spaventata accusano di avere tradito in una parola semplicistica quanto efficace “la gente”.
Con il fiuto del “Predator” populista che è, e che ne ha fatto uno dei demagoghi più ascoltati - e visibili - nell’Italia smarrita di oggi, Salvini è stato il più agile e il più lesto a mettere il proprio cappello sul “Donald”, sul candidato che ancora pochi mesi or sono era visto da tutti i sapienti, quelli di destra compresi, come una curiosità da vignette satiriche e ha invece sbaragliato gli altri sedici campioni del Partito Repubblicano.
SALVINI ALL INCONTRO CON TRUMP
E mentre i sociologi, i sondaggisti, i “pundits”, i commentatori gallonati, si affannano a cercare nei dati demografici la spiegazione della marcia trionfale di Trump, la chiave è il fallimento delle classi dirigenti politiche tradizionali - locali o transnazionali come nel caso della Unione Europea - nel rispondere alle paure, e alla solitudine, alle quali milioni di cittadini si sentono abbandonati.
La rivolta contro le organizzazioni politiche tradizionali, il mandarinato dei Repubblicani distrutto prima con il fiasco del loro predestinato, Jeb Bush, e poi di chiunque altro esso abbia mandato in campo contro Trump, o contro la “Clinton Machine” democratica, è più di quella giusta inquietudine economica e sociale che sull’altro versante ha sospinto Sanders o ha gonfiato il consenso del Movimento Cinque Stelle in Italia.
E’ una ribellione prima di tutto di linguaggio, veicolo necessario a ogni propaganda efficace, un rigetto incosciamente culturale contro la tirannide del “politicamente corretto” che viene visto come uno strumento orwelliano per nascondere i propri privilegi dietro formule stereotipate e cicisbee, in Italia manifestate nel desolante politichese dei governanti.
bernie sanders in pennsylvania
E’ l’angoscia per la impotenza reale, mimetizzata da generosa solidarietà, verso la immigrazione disordinata di “alieni”, di quei portatori di costumi e credenze e facce troppo diverse che minacciano le tradizioni, insidiano il lavoro delle categorie sociali più vulnerabili, danno la caccia alle “nostre donne”, come vuol dire Trump accusando i messicani di essere “stupratori”, così solleticando il maschilismo di elettori che sentono a rischio il proprio patriarcato tribale.
new york post hillary clinton bernie sanders
Il fatto che i campioni della insurrezione anti establishment siano essi stessi prodotti di quelle caste che maledicono, dal superpalazzinaro narcisista dei grattacieli e dei casinò, ai politici di lungo corso come Sanders e Salvini, non turba elettori che sono accecati dall’ostilità anche personale verso chiunque sia ora nella stanza dei bottoni.
Dire che l’irrazionalità emotiva, la collera verso “gli altri” siano il vento che gonfia le vele di Trump, che i programmi di governo siano visibilmente insensati, come la deportazione istantanea di 11 milioni di “clandestini”, la costruzione di muraglie pagate da altri, la miracolosa trasformazione della sbilenca assicurazione sanitaria americana in qualche cosa di “meraviglioso”, come promette Donald, sono ovvietà, non spiegazioni.
La irrazionalità, nel tempo della razionalità impotente, non attenua, al contrario esalta l’appeal populista di personaggi che promettono quello che i loro seguaci vogliono prima di tutto: l’abbattimento del Palazzo e dei suoi inquilini, come nell’episodio biblico di Sansone.
Il Trump-salvinismo, come il suo cugino primo, il Sander-grillismo non propongono visioni carismatiche di nuove società perfette, ma la più semplice e raggiungibile demolizione degli avversari e di quei “signori del potere” che sono vissuti come ostacolo al ritorno a una mitologica grandezza del passato, senza stranieri, senza infedeli, senza globalizzazione, senza “quelli là”.
Rifacciamo Grande l’America, invoca Donald, come Matteo vuole rifare grande l’Italia che i fondatori del suo partito volevano sbriciolare. Gli altri, “loro”, sono incurabilmente corrotti, impregnati dal danaro di Wall Street, dalle mafie, dai clan di partito, dal potere troppo a lungo conservato e imputridito, mentre “noi” siamo i liberatori, forse un po’ barbari, ma attori potenti del cambiamento.
Può sembrare un po’ patetico, e molto provinciale - ma secondo la tradizione stoica del provincialismo della politica italiana - quella visitazione di Salvini al soglio di un Trump che neppure sapeva chi fosse quell’italiano venuto a rendergli omaggio e che cosa sia la Lega. Ma non è affatto provinciale o locale l’onda di marea universale che loro stanno cavalcando e che sta spingendo contro le dighe sempre più fradicie e friabili delle stanche democrazie occidentali.
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