COSE DI CASA NOSTRA: LE CONVERGENZE PARALLELE TRA ANDREOTTI E I BOSS DI PALERMO

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Francesco La Licata per "La Stampa"

Andreotti e la mafia: un tema irrisolto che chissà ancora per quanto tempo rimarrà oggetto di discussione. Undici anni di indagini e processi altalenanti non sono bastati per dare forma concreta ad una verità anche soltanto giudiziaria. Il «Divo Giulio» è entrato come un rebus nelle aule di giustizia e tale è rimasto, anche dopo i molteplici pronunciamenti di Tribunali, Corti d'Assise e Cassazione.

La salomonica sentenza della Corte Suprema, pronunciata nell'ottobre del 2004, a 11 anni dall'atto di incolpazione, ha stabilito che Andreotti non era certamente affiliato a Cosa nostra, ma non ha sciolto il cosiddetto «nodo politico» che descrive il sette volte presidente del Consiglio come aperto ad una «stabile e amichevole disponibilità» verso l'onorata società.

E, ambiguità insanabile, decreta l'innocenza (seppure gravata dall'insufficienza di prove) del politico per le vicende successive al 1980, mentre prescrive - per il troppo tempo trascorso senza una sentenza definitiva - il reato commesso prima di quella data. Un giudizio, quello della Corte d'Appello poi confermato dalla Cassazione, che dai più è stato definito di «alta ingegneria giudiziaria» e il massimo della mediazione possibile nello scontro tra politica e magistratura. Uno scontro fisiologico ma, allora, non ancora tracimato nella crociata berlusconiana contro i magistrati.

La chiusura della Corte Suprema, infatti, riesce incredibilmente a tener conto delle contrastanti esigenze delle parti in causa: da un lato le pretese del primato della politica, dall'altro la giusta applicazione della legge che tutela il principio costituzionale dell'eguaglianza di tutti i cittadini di fronte al giudice.

La «linea del Piave» di una magistratura chiamata alla supplenza politica da un Parlamento, negli Anni Novanta e successivi, reso impresentabile dalle inchieste sulla corruzione.

E così a quanti contestavano alla Procura di Palermo il peccato di arroganza e di invasione di campo verso la politica, la Cassazione offriva una duplice risposta che permetteva a Giulio Andreotti - simbolo immarcescibile del potere - di sbandierare un responso di innocenza e ai magistrati la possibilità di replicare che proprio la prescrizione e l'alternanza dei giudizi costituivano la prova evidente che il processo andava fatto ed era tutt'altro che pretestuoso.

Ben altra sorte, rispetto all'altro processo per mafia subìto da Giulio Andreotti a Perugia per l'assassinio (1979) del giornalista di «OP», Mino Pecorelli. In quella sede «il Presidente» era accusato addirittura di aver chiesto a Cosa nostra l'eliminazione del direttore del periodico scandalistico che lo coinvolgeva nelle vicende relative al cosiddetto scandalo dei petroli.

Un groviglio di mafia, politica, servizi segreti e banda della Magliana, rimasto inestricabile fino ad oggi. Andreotti finì sul banco degli accusati insieme con il suo fido Claudio Vitalone e con una serie di impresentabili assassini che andavano dai boss Tano Badalamenti e Pippo Calò, ai killer Carminati e La Barbera.

Il 17 novembre del 2002, la Corte d'Appello di Perugia ribaltò la sentenza di primo grado che assolveva tutti e condannò Andreotti e Badalamenti a 24 anni di carcere. Un azzardo, quel giudizio, demolito dalla Cassazione non senza ragione, dal momento che un'evidente illogicità pretendeva di riconoscere oltre ogni ragionevole dubbio i mandanti di un omicidio ma ne assolveva i presunti esecutori materiali.

Il «vortice mafioso» accolse Giulio Andreotti nel 1993. Sembrava impossibile che «Belzebù», il diavolo in persona, potesse cadere in quel gorgo. Ci finì spinto dal pentito Tommaso Buscetta e - diceva l'imputato eccellente - da un «suggeritore». Fedele al suo stile ammiccante ma mai fino all'aggressività, a chi gli chiedeva l'identità del «puparo» dava risposte evasive.

Una sola volta lasciò andare una risposta velenosa e, in un articolo, scrisse la metafora del «questore infedele» che, insieme con i frequenti riferimenti ai suoi «nemici americani», chiudeva il quadro dei suoi sospetti sull'origine delle rivelazioni dei pentiti sul suo conto.

Ma Andreotti ha pure sbagliato linea difensiva: per esempio negando l'amicizia coi cugini Ignazio e Nino Salvo, cioè i principali finanziatori della Dc di Salvo Lima e Vito Ciancimino. Troppe volte a Palermo quella frequentazione era stata data per scontata. Troppo chiaro era stato il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa nel descrivere la corrente andreottiana come «la famiglia politica più inquinata».

E la stessa disinvoltura di Andreotti nella gestione di rapporti pericolosi non aveva giovato alla sua reputazione. Due esempi bastano: la difesa di Michele Sindona e del piano di Licio Gelli che tentava di salvare dalla bancarotta la Banca Privata, contro il parere di Ugo La Malfa. E poi la solitudine in cui fu lasciato il liquidatore, Giorgio Ambrosoli (ucciso da un killer di Sindona) di cui Andreotti dirà che era uno «che se l'andava cercando».

Investito dalle polemiche si sarebbe poi corretto, spiegando di aver voluto dire che Ambrosoli «si era consapevolmente esposto». Ma, ancora nel 2010, su Michele Sindona: «Ho sempre pensato che non fosse il diavolo in persona».

Secondo i pentiti, Andreotti usò la mafia per accrescere il suo potere elettorale in Sicilia. E per questo non esitò ad intrecciare un rapporto che si sarebbe allargato a anche a questioni più strettamente «politiche», come il tentativo di golpe del principe Valerio Borghese cui Cosa nostra non fu estranea.

Cosa ricevevano in cambio i boss? Un «aiutino» per neutralizzare i processi e specialmente il maxiprocesso. Per questo è stato processato anche il giudice Corrado Carnevale che, però, è stato assolto con formula piena. Lo scambio, quindi, non risulta provato.

Così come è rimasta una favola il famigerato bacio con Totò Riina, raccontato dal pentito Balduccio Di Maggio e smentito, successivamente, dalla stessa «inaffidabilità intrinseca» del collaboratore. Anzi, non è esagerato affermare che proprio quel «bacio» ha rappresentato il virus-killer dell'intero impianto accusatorio.

In effetti riesce difficile pensare ad Andreotti che si profonde in effusioni col capo della mafia, lui che durante il processo - si è limitato a dare freddamente la mano ai procuratori che lo accusavano e ha mantenuto un profondo distacco istituzionale che gli è valso il plauso generale per come, a differenza di altri, ha affrontato le sue disavventure giudiziarie.

La sua lunga funzione di uomo di Stato, forse, può averlo esposto a frequentazioni pericolose in un momento storico in cui la pregiudiziale anticomunista (con o senza l'occhio vigile della mafia al Sud) rappresentava una sorta di atto dovuto nei confronti degli alleati Usa e della matrice cattolica della Dc. Ma un simile scenario difficilmente può entrare in un processo penale.

Quando si avvicinava la sentenza di primo grado si aprì un momento di grande aspettativa per il risultato del dibattimento. Non mancavano timori istituzionali per una eventuale condanna. Personaggi rappresentativi azzardavano interpretazioni. Anche Gianni Agnelli seguiva attentamente la vicenda e alla vigilia della sentenza si lasciò andare: «Sarà assolto». Perché tanta certezza? L'Avvocato rispose: «Nessun Paese civilizzato può certificare al mondo di essere stato governato dalla mafia. Neppure se fosse vero».

 

giulio andreotti Toto RiinaMino PecorelliCarlo Alberto Dalla Chiesa alla prefettura di Palermo con la sua borsa Limmagine e tratta da un filmato della sede siciliana della Rai jpegMichele Sindona Licio Gelli1 badalamenti tano