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Massimo Gaggi per il "Corriere della Sera"
Trasmettere a meno di 48 ore dal voto per la Casa Bianca un film sul blitz in Pakistan col quale le forze speciali Usa eliminarono Osama Bin Laden, integrato con scene che esaltano il ruolo del presidente Obama, è una normale operazione commerciale di una rete televisiva non di primissimo piano o un tentativo di influenzare in modo scorretto il risultato elettorale? Attorno a SEAL Team Six, il documentario che (salvo contrordini), andrà in onda la sera di domenica 4 novembre, è scoppiato un putiferio: per il contenuto dell'opera e per il suo «editing», ma anche per la storia della produzione, per la tempistica che è stata scelta e per i personaggi finiti sotto i riflettori.
Tutto comincia nel maggio scorso a Cannes quando il produttore di Hollywood Harvey Weinstein, un obamiano di ferro che ha sovvenzionato molte volte il partito democratico e la campagna del presidente, acquista un documentario sull'attacco alla villa-fortezza di Abbottabad realizzato dal regista John Stockwell. A differenza di Zero Dark Thirty, il film sulla stessa vicenda girato dalla regista Kathryn Bigelow (Oscar due anni fa per The Hurt Locker, sulla guerra in Iraq), Stockwell non è stato aiutato dai militari Usa a realizzare la sua opera.
Ma alla fine l'uscita nei cinema del film della Bigelow è stata posticipata a dicembre proprio per evitare strumentalizzazioni e polemiche politiche. Tanto più che i repubblicani erano già partiti all'attacco accusando la Casa Bianca di aver fornito alla Bigelow informazioni coperte da segreto militare, pur di aiutarla a confezionare una pellicola favorevole al presidente.
Nel caso del documentario televisivo, invece, non è stata usata la stessa accortezza. E, anzi, Weinstein ha voluto che al lungometraggio fossero aggiunte alcune scene sul ruolo del presidente: Obama che partecipa alla cena di gala della stampa la sera prima del raid, scherzando come se nulla fosse, Obama che cammina pensoso qualche ora dopo, mentre, probabilmente, sta prendendo le sue decisioni, Obama che pronuncia il celebre «giustizia è fatta» ad operazione conclusa. A mettere insieme il materiale è stata Meghan O'Hara, una producer che già fu la più stretta collaboratrice di Michael Moore nella realizzazione, otto anni fa, di Fahrenheit 9/11: documentario politico del regista della sinistra radicale contenente un duro atto d'accusa contro George Bush.
Anche allora il produttore fu Weinstein, accusa la Fox Tv, la corazzata conservatrice del gruppo Murdoch. E anche allora l'uscita della pellicola fu sapientemente collocata alla vigilia di un'elezione presidenziale, quella del 2004.
Che la vicenda sia «sospetta» non c'è dubbio, ed è significativo che a tirarla fuori sia stato, due giorni fa, un giornale liberal come il New York Times. Mentre la vicenda, poi, è stata rilanciata senza remore da altri media progressisti come il britannico Guardian. Ma è anche curioso che il documentario sia finito su una rete non di primissimo piano: lo trasmetterà il canale del National Geographic che è al 37° posto nella classifica dei network via cavo più visti (arriva, comunque, in 85 milioni di case). E che, per di più, appartiene anch'esso al gruppo Murdoch.
E Stockwell, il regista dell'opera originale, difende in un articolo scritto per l'Huffington Post, il «taglia e cuci» voluto da Weinstein sostenendo che era giusto dare più spazio a Obama: «Ha preso una decisione politica di grande coraggio. Fosse andata male, sarebbe stato un disastro come la fallita librazione degli ostaggi americani a Teheran nell'aprile del 1980: un insuccesso militare che, pochi mesi dopo, costò la presidenza a Jimmy Carter».
«Se non c'è niente di politico dietro, basta che spostino in avanti di tre giorni la messa in onda del documentario e il problema è risolto» suggerisce ora Brent Bozell, direttore di un centro di ricerche sui media, conservatore. Ma la rete televisiva sostiene di aver evitato speculazioni politiche eliminando una scena nella quale si vedeva Mitt Romney esprimersi contro un eventuale attacco. Il palinsesto - dicono - è rigido e dobbiamo uscire comunque prima del film della Bigelow. Il pasticcio è servito.
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