DAGOREPORT – MATTEO FA IL MATTO E GIORGIA INCATENA LA SANTANCHÈ ALLA POLTRONA: SALVINI, ASSOLTO AL…
1. MUTI, ADDIO ALL’OPERA LA FUGA TRISTE DELL’ULTIMO MAESTRO DAL PAESE SENZA MUSICA
Francesco Merlo per “La Repubblica”
La fuga di Riccardo Muti dall’Opera di Roma arretra l’Italia come le sconfitte della Ferrari, il fallimento dell’Alitalia, il tramonto della Fiat. E a Matteo Renzi dovrebbe stare più a cuore della mozzarella di Eataly e del gelato di Grom.
Anche perché nel trionfo del grottesco mobbing sindacale degli orchestrali più pagati del mondo contro la bacchetta più geniale (e più fragile) c’è l’articolo 18 suonato nel Golfo mistico. C’è per parlare con Renzi, «la coperta di Linus della sinistra» e «la vecchia guardia» di Cgil e autonomi che spacciano il privilegio per diritto. E la clientela e il comparaggio travestono di cultura, quella dei «lavoratori dello spettacolo» per dirla in sindacalese da bacheca.
I dispiaceri, gli ohibò, i caspita e i mizzica del sindaco Marino, del sovrintendente Fuortes e del ministro Franceschini sono il nuovo manierismo romano della decadenza. Non più il «ma che ce frega, ma che ce ‘mporta» dei Magnaccioni, ma il dare la colpa agli altri: «alla dissennata gestione che ci ha preceduti», che è lo scaricabile; «al sistema musicale», che è il legno storto dell’umanità; alla «conflittualità interna» che, per la verità, ha avuto per protagonisti anche Marino, Fuortes e Franceschini che ora disbrigano la “rogna” Muti come le buche sulla Laurentina, l’infruibilità della Domus Aurea, le bottigliate nelle strade della movida.
Certo, è vero che ovunque la musica va in distorsione. A Genova per un’ipotesi di corruzione di 50 milioni. A Milano per il conflitto di interessi del sovrintendente Pereira che ha comprato per sé da se stesso: «parla di sé, tra sé e sé» cantava Gaber. A Torino perché l’artista Noseda è stato messo in fuga dal politico Vergnano. Il San Carlo di Napoli è commissariato. I teatri di Palermo e di Firenze sono appena usciti dal commissariamento. Il Comunale di Bologna ha una vita “povera e nuda”. Sino all’Orchestra Sinfonica Siciliana assegnata da Crocetta a una brava amministratrice di palestre, Valeria Grasso, per meriti …antimafia, come ha notato Gioacchino Lanza Tomasi.
Ma è con Roma che si arriva al collasso dell’orchestra- Italia profetizzato da Fellini. È a Roma che il fallimento brucia di più, perché Muti è unico e perché finalmente la capitale sembrava avere un teatro all’altezza dell’antica storia dei Gavazzeni e dei Von Karajan.
Va sottolineato che Muti fugge da Roma com’era fuggito dalla Scala nel 2005.
Allora il maestro, cittadino del mondo e musicista con il diavolo in corpo, per salvare il proprio passato si rese invisibile eliminando fisicamente tutte le foto e le immagini di sé che stavano scolpite negli annali, nella pubblicità, nel sito Internet. Ora se n’è andato con un fax da Chicago, dove dirige una delle big five , e forse ha fatto una breve telefonata, “una frase, un rigo appena”, e mentre gli abbonamenti sono in corso. Non dirigerà l’ Aida né Le nozze di Figaro .
In sei anni, con la testardaggine del carisma («alla peggio muovo le braccia e qualcosa sempre succede») Muti era riuscito a trasformare il teatro peggiore del mondo, una specie di Armata Brancaleone di legno e ottoni, in un gioiello di fossa. Certo, l’uomo è vezzoso, non tollera le critiche ma, a parte la caduta di stile del “tengo famiglia” con la regia di Manon Lescault alla figlia Chiara, l’età lo ha reso più sobrio e forse la morte di Abbado gli ha affidato una malinconica saggezza e magari pure qualche rimpianto (rimorso?) per quel passato di «bollenti spiriti» e «giovanile ardore», quando l’Italia, invece di andar fiera dei suoi due grandissimi direttori, si divideva in mutiani e abbadiani, facendo partiti del talento che non ha partito.
Di sicuro nel 2011 il bis del Nabucco «per la cultura italiana lontana e perduta», cliccato su You-Tube più di Pavarotti e Bocelli, rese mitica un’orchestra di 8 sigle sindacali e 7 note musicali. E il Macbeth purificò la giungla dei patti integrativi. Poi la vecchiaia del Simon Boccanegra sublimò l’anzianità degli straordinari crescenti.
E la forza dell’ Attila acquietò la piccole barbarie dell’orario: su 180 giorni, ogni primo strumento ne passa la metà in legittimo riposo contrattuale: «notte e giorno faticar/ mangiar male e mai dormir».
Pensate che solo per spostarsi dall’Opera a Caracalla gli orchestrali godono di un’indennità: il quarto d’ora a piedi più pagato del mondo, esteso anche a chi non si sposta (gli amministrativi) perché qui i fermi si muovono.
Eppure un giorno, dodici dei primi strumenti, tutti Cgil o Fials, irruppero come furie nel camerino di Muti. E invece delle prove si riunivano in assemblea. In venti si sono poi “ammalati” per non andare in tournée. Al Lago dei cigni non si presentarono, ma una registrazione li sostituì. Ogni volta che la direzione toccava a Muti le minacce di sciopero andavano in crescendo per costringerlo a mediare. E lui si prestava: «sopire e tacere». Sino allo sciopero per la Bohème, eseguita a Caracalla con il solo pianoforte.
Ma non si può dare tutta la colpa agli orchestrali sindacalizzati e assolvere il sindaco, il sovrintendente, il ministro e magari anche quel solito alto (altissimo) funzionario, Salvo Nastasi, a cui tutti da almeno dieci danno colpa e merito di tutto. La verità è che l’Italia predilige i Tromboni e fa scappare i Maestri, affida le istituzioni culturali alle clientele e al pascolo della retorica ma non regge la bellezza e la grandezza. E dell’artista asseconda soltanto i capricci.
2. SCIOPERI E TOURNÉE IN GIAPPONE: GLI ULTIMI SCONTRI CON L’ORCHESTRA
Valerio Cappelli per “il Corriere della Sera”
Muti e l’Orchestra dell’Opera, storia di un idillio che si è sgretolato nel tempo. Il direttore aveva sempre difeso i suoi musicisti, alle prove li contagiava col suo modo di fare, rigore e aneddoti. Ma le tensioni sindacali esplose quando è emerso che la realtà economica non era quella dipinta dall’ex sovrintendente De Martino hanno messo fine all’intesa.
Le gocce finali sono state la minaccia di sciopero a febbraio, a poche ore dalla «prima» della Manon Lescaut , che segnava il debutto assoluto di Anna Netrebko nel teatro romano; l’aggressione nel suo camerino di una dozzina di dipendenti in cerca di solidarietà; la tournée di tre mesi fa in Giappone dove non ha partecipato una ventina di orchestrali, tra cui il primo violino Vincenzo Bolognese (balzato alla cronaca per la busta paga da cui risultavano 62 giorni lavorativi in sei mesi). Una delle rare occasioni di visibilità internazionale per la Fondazione lirica romana (a proposito: cosa succederà ora per il secondo invito a Salisburgo?).
Il giorno dopo la denuncia degli sprechi, Muti ha fatto togliere il proprio volto dal manifesto che campeggiava sulla facciata dell’Opera, con il quale si voleva spingere la campagna abbonamenti. Muti l’aveva sempre detto: «Resto fino a quando ci sono le condizioni per lavorare bene».
Non ne poteva più delle tensioni sindacali. La guerra sembrava conclusa, dopo il sì dei dipendenti al referendum di venerdì scorso sull’approvazione del piano industriale, che mette al riparo il teatro dal rischio della chiusura a causa dell’enorme passivo della passata gestione.
Muti ha capito però che sarebbero tornati gli incubi degli scioperi selvaggi da parte di Cgil e Fials, che nei volantini hanno scritto: «Non andate a votare, questo referendum non è valido». C’è come un misto di cinismo, di indifferenza o di inconsapevolezza nel boicottare dall’interno le occasioni di prestigio di questo teatro.
Dice Paolo Terrinoni, il segretario di Roma e del Lazio della Cisl (la maggioranza favorevole all’accordo): «Abbiamo sempre cercato di dare serenità, non a Muti ma al teatro, che era a un passo dall’essere liquidato. Qualcuno dovrà farsi un esame di coscienza». Sia il ministro dei Beni Culturali Dario Franceschini che il direttore generale Salvo Nastasi, hanno telefonato a Chicago, dove si trovava Muti, provando a convincerlo a rimanere a Roma. Muti è stato irremovibile, ritenendosi offeso sul piano umano e professionale.
ASSOLO IN GNAM DI RICCARDO MUTI_resize
Nella lettera non dice che non tornerà più a Roma, ma conoscendolo, sarà molto difficile che in futuro vi metterà piede. E dopo la rottura col San Carlo della sua Napoli, Muti potrebbe non lavorare più in una Fondazione lirica italiana.
Nastasi (che è il principale obiettivo dei sindacati, come ispiratore della legge che ha anteposto la qualità rispetto alle rivendicazioni obsolete), dice che «è arrivato il momento di rivedere il confine tra corrette relazioni sindacali e tutela del pubblico e degli artisti.
C’è una soglia oltre cui non possiamo andare. Se le turbolenze arrivano fino al punto da far scappare Muti, c’è qualcosa che non funziona. Bisognerà affrontare in maniera definitiva il ruolo dei sindacati nei teatri lirici italiani».
3. MUOVERE LA TESTA A RITMO? VA BENE SE C’È L’INDENNITÀ TRA CAPRICCI E FOLLIE, L’IMPOSSIBILE GESTIONE DEI TEATRI
Alberto Mattioli per “La Stampa”
ignazio marino con i peperoncini all opera di roma per la prima di ernani diretto da riccardo muti
Muti abbandona l’Opera che affonda. Magari servirà finalmente ad accendere i riflettori mediatici su quello che tutti sanno e nessuno ha il coraggio di dire: con queste regole e con questi sindacati, i teatri lirici italiani sono ingestibili. Mai come all’opera le tutele si sono trasformate in privilegi, il precedente è diventato legge, l’abuso abitudine.
Fellini, che conosceva i suoi polli, aveva già capito e raccontato tutto in «Prova d’orchestra». Ma come sempre in Italia la realtà supera la fantasia e l’elenco delle follie è più lungo dell’«Anello del Nibelungo». Per carità: formalmente, tutto è in regola, come da comma due dell’articolo tre. Ma gli effetti sono devastanti.
Qualche esempio? Alla Scala, ultima stagione, sono arrivati «Les Troyens» di Berlioz coprodotti con il Covent Garden di Londra. Però a Milano c’era un intervallo di più, perché qualche regola idiota impone che non si possano accorpare più atti se la loro durata eccede quanto stabilito dal contratto. Inutili le richieste dal podio di un esterrefatto sir Antonio Pappano.
Riccardo Muti dirige l Ernani all Opera di Roma h partb
Risultato: l’opera, già lunga di suo, è diventata interminabile. Invece la prima del balletto «Romeo et Juliette» di Sasha Waltz, sempre alla Scala, nel 2012 saltò del tutto. I coristi, che dovevano muovere la testa a ritmo di musica, chiesero l’indennità da «prestazione speciale», i ballerini una gratifica perché il palcoscenico era stato leggermente inclinato dallo scenografo. Il sovrintendente Stéphane Lissner disse no e lo spettacolo non si fece.
Poi c’è il problema del freddo. Si ricordano proteste e assemblee, dal Carlo Felice di Genova al Massimo di Palermo, perché in buca la temperatura era di qualche grado più bassa di quanto previsto. A Palermo i professori si presentarono polemicamente in cappotto (a Palermo, non a Stoccolma).
Le indennità sono un capitolo a parte. Indennità lingua per i coristi perché disgraziatamente Wagner o Bizet hanno avuto la cattiva idea di non scrivere in italiano, indennità frac per i professori d’orchestra, indennità umidità se lo spettacolo è all’aperto, indennità video se viene ripreso.
All’Arena c’è l’indennità arma, giusto compenso alla fatica di dover portare l’alabarda nel «Trovatore» o lo scudo in «Aida». Un’estate il regista di «Nabucco», Denis Krief, decise che ne aveva abbastanza e fece irrompere nel tempio di Gerusalemme degli assiri perfettamente disarmati. L’Opera di Roma paga (cioè, noi paghiamo) un’«indennità Caracalla» anche agli impiegati, che alle Terme di Caracalla, sede della stagione estiva, non ci mettono mai piede né mai ce l’hanno messo.
Del resto, il contratto nazionale degli orchestrali prevede 28 ore settimanali di lavoro, e tanta gente in permesso artistico da un teatro e la trovi poi a suonare in un altro... Qui davvero o si cambia o si muore. Lo dimostra il fatto che alla Fenice di Venezia e al Regio di Torino, i due teatri italiani migliori, grazie a dei dipendenti responsabili si è riusciti a fare quel che sembrava impossibile: aumentare la produttività a livelli europei.
terme di caracalla musica classica a roma
L’Opera di Roma è sempre stata il peggio del peggio, altro che «vertice della produzione lirica mondiale» come da comunicato mitomane che annuncia l’addio di Muti (o i pezzi dei giornalisti di corte sul «miglior teatro italiano», sì, ciao core). Il fondo lo si toccò a una prova della «Valchiria» diretta dal grande Giuseppe Sinopoli in un teatro pieno di studenti. Alla fine, Sinopoli annunciò ai ragazzi: «Adesso vi facciamo sentire il tema della spada». Servivano pochi secondi, ma si alzò un sindacalista e disse: «Maestro, la prova è finita». Sandro Cappelletto, che era in sala, vide Sinopoli spezzare la bacchetta per la rabbia. Del resto nella capitale la musica «è» Santa Cecilia, non certo l’Opera. All’Opera facciamoci un parcheggio.
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