1- LASSU? QUALCUNO CI AMA: E’ IL GATTOSARDO CHE NE AVREBBE TANTE DA DIRE SULL’ITALIETTA DI OGGI DEGLI ARLECCHINO, PINOCCHIO E PULCINELLA. PER ESEMPIO, SULLO SCONTRO PER LA SUCCESSIONE DI DRAGHI A GOVERNATORE IN VIA NAZIONALE 2- DIECI ANNI FA FRANCESCO COSSIGA GIA’ AFFRONTAVA DI PETTO LA QUESTIONE CON LA PROPOSTA-PROVOCAZIONE DI LANCIARE UN’OPA OSTILE SU BANKITALIA. NEL PIENO DELLO SCONTRO FAZIO-GERONZI DICHIARAVA: “L’ISTITUTO E’ DIVENTATO UN IRCOCERVO, UNA PSEUDO SOCIETA’ PER AZIONI, CON UNO STATUTO PRIVATISTICO…INSOMMA, IL TRIONFO DELL’IPOCRISIA E DEI CONFLITTI D’INTERESSE…FINO A DIVENTARE UN POTERE IRRESPONSABILE” 3- E PER USCIRE FUORI DALLE FINZIONI, BANKITALIA DOVREBBE ESSERE DI PROPRIETA’ PUBBLICA “E NON UN CENTRO DI POTERE DIRIGISTICO” PUR AVENDO PERSO LA SOVRANITA’ MONETARIA ALLA BCE(L’INTERVISTA-BOMBA “ESPRESSO” DEL 2002 DI MUCCHETTI)

Vai all'articolo precedente Vai all'articolo precedente
guarda la fotogallery

TIna A. Commotrix per Dagospia

Beh, dire a noi di Dagospia che ci manca il Gatto Sardo non è soltanto un'ammissione di devozione nei confronti del nostro supremo protettore. Sperando che da lassù Francesco non allontani mai il suo sguardo ironico e devastante sul nostro sito. Già, perché non passa giorno, infatti, che non torniamo a chiederci cosa avrebbe pensato (e detto) Kossiga sull'Italia degli Arlecchino (Bossi), dei Pinocchio (Berlusconi) e dei vari Pulcinella (Bersani, Casini, Vendola e Di Pietro).

E sulla vocazione servile di un Paese, a cominciare dai giornali e del parlamento imbelle "dei nominati", che s'avvede soltanto ora che lo stivale va a pezzi. Che i partiti non sono la partitocrazia. Che la legge elettorale è una porcata. Che un conto era la partitocrazia. E che negli ultimi quindici anni è stata distrutta un'intera classe dirigente pubblica, sostituita sul campo (o sui letti a due piazze) dai vari Lavitola&Tarantini; e troie varie.

Tutti zitti di fronte allo sfacelo morale. A cominciare dai vertici della Chiesa che da Tangentopoli in poi, impenitenti, si sono autoassolti senza nemmeno recitare un mea culpa per le tante colpe commesse (reati patrimoniali compresi). Per finire a una classe imprenditoriale che ha coperto (spesso con gli applausi) un governo che prometteva meno tasse e più sviluppo. Poi è andata finire con il Paese a rischio default.

Tutti, invece, stavano lì a ciarlare ancora contro la Casta (corriva) o a evocare le varie P2-P3-P4. Senza spiegare mai, Lor signori dei media, che le lobby erano (sono) figlie illegittime, appunto, del nuovo modo di governare (e di amministrare la cosa pubblica) da parte dell'asse Berlusconi-Bossi. E dei loro fedeli accoliti. Di fronte ai quali hanno dovuto piegare la testa manager pubblici, imprenditori e anche i direttori dei giorni. Con Palazzo Chigi, sede del governo, ridotto a sala d'attesa dei ministri (non fumatori), neanche fosse una stazione ferroviaria di seconda classe.

Mentre i fasti politici (e non soltanto) si celebravano a palazzo Grazioli, tra un bunga bunga e una lap dance. Oppure nella villa di Arcore del Cavalier Pompetta in omaggio al federalismo "alla puttanesca" tanto caro ai leghisti, ormai abbandonati in massa dal proprio elettorato deluso (e schifato). Tant'è che oggi il governo ha una maggioranza in parlamento, ma è ampiamente minoritario nel Paese.

Ma il Ghota dei poteri marci, come l'opposizione - a differenza del mitologico dottor Romiti - non hanno ancora compreso appieno che non basta l'editto sgrammaticato di uno Scarparo (Diego Della Valle) per mettere una "pezza", sia pure a pallini, sulla grave situazione. Fino a farci rimpiangere i "furbetti del quartierino" alla Ricucci il cui linguaggio da borgata almeno aveva un impatto popolare ben più forte di quello del Dr.Hogan&Mr.Hide. Ahimè, anche in debito di analisi logica e grammaticale.

Di ben altro mastice (forte culturalmente) abbisogna la politica. Non di un movimento alternativo guidato magari dal "marchesino" (Luca di Montezemolo) che "stava sulle palle" a Cossiga. Lo scomparso presidente emerito più volte si era espresso affinché cultura, politica e impresa non si muovessero lungo piani separati.

"C'è da arare insieme il grande campo comune della migliore qualità della vita", sosteneva il Gatto Sardo. Poi dall'aratro passò al piccone, ma questa è un'altra storia. La storia di K che piace soprattutto ai suoi numerosi detrattori. Ma la militanza nella Dc, l'opera del politico e dello studioso Cossiga, comprese le sue numerose interviste - ammonitrici e a volte profetiche - non meritano davvero l'oblio.

Ecco perché Dagospia (ri)pubblica l'intervista - attuale rispetto alle ultime vicende su Bankitalia - che il senatore a vita concesse nel novembre del 2002 a Massimo Mucchetti, allora in servizio all'Espresso. E' stato l'ex ministro socialista Rino Formica ad evocare quel colloquio in una lettera al il Foglio in cui il Gatto Sardo suggeriva, provocatoriamente (ma non tanto), un'Opa ostile sull'istituto di via Nazionale. Ma ci saranno altre occasioni per "attualizzare" su Dagospia il pensiero del Signor K.

Opa su Banca d'Italia
Intervista a Francesco Cossiga di Massimo Mucchetti
Da l'Espresso del 13/11/02

"Nessun Governatore della Banca d'Italia aveva osato spingere l'esercizio del proprio potere fino a intimare, attraverso dichiarazioni rilasciate a un settimanale di proprietà del capo del governo, il cambiamento del vertice di una grande banca privata. Antonio Fazio l'ha fatto, sostenendo la candidatura di Pietro Giarda alla presidenza di Mediobanca, crocevia dell'alta finanza italiana.

Ma non è riuscito a convincere i principali azionisti della banca d'affari milanese. Solo Capitalia, l'ex Banca di Roma, e Unicredito hanno detto: «Giarda». Tutti gli altri, comprese Fiat, Pirelli e Mediolanum, hanno preferito non arrivare alla conta. Non è servito a Fazio proporsi come il curatore del testamento morale di Enrico Cuccia: i soci di Mediobanca conservano una memoria troppo precisa del fondatore; e anche dei debiti che hanno verso i suoi "eredi".

La bocciatura del Governatore, per quanto provvisoria, riapre la questione della Banca d'Italia, dei suoi poteri, della sua gestione: tutti problemi sui quali, peraltro, il Parlamento sarà presto chiamato a discutere nel quadro della riforma delle Autorità. Pochi, tuttavia, se la sentono di parlarne: non i banchieri, e nemmeno i politici. Tra i pochi disposti a discutere nel merito il più autorevole per storia personale e libertà di pensiero è l'ex presidente della Repubblica, Francesco Cossiga. "L'espresso", che aveva sollevato il problema gi à due anni fa, lo ha intervistato.

Presidente, secondo Fazio, lei vaneggia.
«Meraviglia che una persona così delicata usi espressioni così insultanti verso un vecchio amico che è un ex capo dello Stato. E autorizza a credere a ciò che si dice nel mondo della finanza e della politica».

E che cosa si dice in giro?
«Che Antonio Fazio sia preso da un qual certo delirio di onnipotenza, dovuto al fatto che, non avendo più molto da fare, e non facendo seriamente quel poco che dovrebbe, cerca di acquisire potere politico in forme fanciullesche e banali ».

Ma tutti, da Silvio Berlusconi a Piero Fassino, lo stanno a sentire.
«Fino a quando non troverà qualcuno - un banchiere o un capo del governo - che, all'ennesima telefonata di moral suasion, non gli sbatta giù la cornetta dicendogli: "Si occupi delle cose sue e si metta in testa che sul resto lei non conta nulla". Mi pare che questo qualcuno lo stia trovando».

Davvero?
«Come interpretare altrimenti la conferma di Francesco Cingano alla presidenza di Mediobanca? La campagna invernale dei "compari di pellegrinaggi", nonostante l'aiuto di Unicredito, è fallita. Anche per l'entrata in scena dei francesi di Bolloré: non siamo più nel recinto».

Compari di pellegrinaggi?
«Certo, sono Fazio e Cesare Geronzi, il presidente di Capitalia. Sotto il profilo religioso è commendevole che vadano con le mogli a Lourdes e anche - scelta più raffinata ed esclusiva - a Santiago de Compostela. Troverei, tuttavia, più aderente allo spirito francescano se ci arrivassero a piedi, lungo il cammino dei pellegrini, e non a bordo di aerei privati noleggiati dalla Banca di Roma: la controllata che paga il biglietto al controllore e signora».

Perché il Governatore si occuperebbe di cose non sue?
«Fazio sta diventando sempre più una pericolosa marionetta nelle mani dell'anima nera di un nuovo centro di potere che ambisce a prendere il posto di quello, ormai morente, rappresentato dalla famiglia Agnelli. L'anima nera è Geronzi. E Fazio, per servire il disegno, deve salvare l'ex Banca di Roma salvando la reputazione del suo presidente e dell'inadempiente Vigilanza, e trovando all'amico una nuova poltrona. Magari nel sistema Mediobanca. A questo fine l'ingiusta condanna di Pellegrino Capaldo al processo di Perugia è stata di grande aiuto».

Qual è il nesso?
«Avrà notato che né Geronzi, che pure ha evitato il rinvio a giudizio grazie alle deposizioni di Capaldo, né il Governatore, che pure rappresenta quella stessa Banca d'Italia che aveva dettato i limiti, rigorosamente rispettati, del salvataggio di Federconsorzi, hanno speso una parola sull'argomento. A loro interessa solo che il processo di Perugia si sia concluso all'insegna del fuori due».

Fuori due? Sia meno criptico.
«Capaldo era un candidato forte alla presidenza di Mediobanca, ma sgradito ai "compari di pellegrinaggi". La condanna lo esclude da questo incarico. Prima di lui, allo stesso modo, era stato azzoppato Cesare Romiti, che al processo di Torino si immolò sull'altare del "nulla sapevo" della famiglia Agnelli, precludendosi la successione a Enrico Cuccia. Attaccato per eccesso di scrupolo e di zelo da Vincenzo Maranghi sulla gestione Hdp a opera del figlio, Romiti si è dunque, comprensibilmente, alleato a scopo difensivo con Geronzi e Fazio».

Durerà questa alleanza?
«Non lo so. Ma osservo che ai "compari di pellegrinaggi" si è aggiunto ora Unicredito. Se c'era una banca diversa dall'ex Banca di Roma e un banchiere avverso a Geronzi, questi erano Unicredito e il suo capo, Alessandro Profumo. Ma in questi mesi si è saldata l'alleanza tra il gatto e la volpe. Unicredito dovr à dare il sangue per evitare il collasso di Capitalia, nella prospettiva che, dopo il "re", Profumo diventi il "reuccio" d'Italia».

Il centro di potere, però, attrae talenti.
«È l'effetto degli interventi dirigisti della Banca d'Italia. E questi sono possibili perché nessun governo - e non sarà certo quello di Silvio Berlusconi a cambiare! - ha affrontato il problema del ruolo della banca centrale nel sistema economico che viene privatizzato e si apre al mondo, che cede la sovranità monetaria alla banca centrale europea. La Banca d'Italia è diventata un ircocervo, una pseudo-società per azioni, con uno statuto privatistico e finalità di interesse pubblico, con un azionariato che era formato da societ à ed enti un tempo pubblici e ora privati, un tempo controllati da altri e ora dalla loro stessa controllata. Insomma, il trionfo dell'ipocrisia e dei conflitti d'interessi».

Eppure viene portata a esempio di rigore.
«E spesso non a torto. Il suo ufficio studi è un modello. Ma non lo è la sua governance. Il Governatore e il direttore generale vengono nominati dal Consiglio superiore. Ma il Consiglio superiore non conta nulla. Brave persone e nient'altro».

Come fa a dirlo?
«Parlo per esperienza. Quando il povero Paolo Baffi, perseguitato dalla magistratura romana, si dimise da Governatore e Mario Sarcinelli, arrestato ingiustamente, lasci ò la direzione generale, mi trovai a dover nominare il nuovo vertice della Banca d'Italia. Fui io a scegliere quale presidente del Consiglio, dopo aver ascoltato tutti, leader politici compresi. Poiché la nomina non poteva venire direttamente da palazzo Chigi, convocai il presidente del Consiglio superiore, il notaio Carbone, nel mio ufficio privato di via San Claudio e gli diedi il bigliettino con i nomi di Ciampi per la carica di Governatore e di Lamberto Dini per la direzione generale, anche se fino a ventiquattr'ore prima avevo in mente per quell'incarico Sergio Siglienti, che in extremis rinunciò alla designazione. In un'ora il Consiglio superiore deliberò le nomine. E subito dopo, secondo la procedura, il consiglio dei ministri le approvò e il Quirinale le consacrò con il rituale decreto».

È ancora così? Che cosa c'è di sbagliato?
«Tutto. È tutta una finzione. Ha mai avuto notizia di una presa di posizione del Consiglio superiore? Grazie a questa e ad altre ipocrisie, la Banca d'Italia è diventata un potere del tutto irresponsabile».

Il Governatore ritiene che l'attuale assetto preservi l'autonomia della banca centrale, condizione essenziale per assolvere ai propri doveri.
«Chiariamo subito un punto: a chi tocca discutere delle finalità, e dunque dei poteri e dei mezzi, anche patrimoniali, di una banca centrale? Non credo al Governatore che, pur credendosi un sovrano assoluto, resta un impiegato dello Stato. Il Governatore pu ò manifestare il suo apprezzato parere. Può far parte, assieme ad altri, di una commissione di studio che stenda un nuovo statuto. Ma la decisione finale spetta al Parlamento della Repubblica, espressione della sovranità popolare».

È fatta. Cossiga, nostalgico della Prima Repubblica, vuol fare entrare la politica nel santuario di via Nazionale.
«Siamo seri. Anche la Banca d'Italia è il risultato della storia, e quindi della politica. E il mutare dei tempi ha reso ridicoli assetti che, prima, apparivano ragionevoli. Negli anni Trenta, quando si stabilì l'attuale struttura societaria della Banca d'Italia, il capitale venne suddiviso tra casse di risparmio, banche d'interesse nazionale, istituti di diritto pubblico, enti pubblici come l'Inps e l'Ina. L'obiettivo era quello di assicurare alla banca centrale un'autonomia formale dal Tesoro e, al tempo stesso, di conservarne in mani non private la proprietà. Allora la Banca centrale batteva moneta, ma la manovra sul tasso di sconto, chiave di volta della politica del credito, e la vigilanza sul sistema bancario erano di competenza del Tesoro».

Ora molto è cambiato. I soci.
«Gli azionisti ormai sono quasi tutti privati e dovrebbero operare in regime di concorrenza. In realtà, non possono muovere un passo senza l'autorizzazione della loro controllata Banca d'Italia. E quando, come nel caso dell'Ina, ormai parte del gruppo Generali, non sono sottoposti alla Vigilanza, devono comunque rispondere a Fazio, che tramite il Fondo Pensioni della banca centrale, partecipa al loro capitale».

Un conflitto d'interessi chiaro.
«I poteri di via Nazionale non sono le Tavole della Legge, sacre e immutabili. Evolvono. Durante il cosiddetto regime democristiano, i Governatori - da Donato Menichella a Guido Carli - venivano dall'Iri. In quel periodo, banca centrale e Tesoro erano di fatto la stessa cosa. Fu il divorzio del Tesoro dalla Banca d'Italia, che negli anni Ottanta esonerò la medesima dall'obbligo di sottoscrivere l'offerta di titoli pubblici a copertura del disavanzo, a dare a Carli il destro per portare a compimento la riforma Einaudi».

In che cosa consisteva questa riforma?
«A volte rinfrescare la memoria serve. Durante i governi del Comitato di liberazione nazionale, Luigi Einaudi fece delegare alla banca centrale la competenza per la Vigilanza che, prima, apparteneva al Tesoro. Einaudi temeva che al Tesoro potesse arrivare il comunista Mauro Scoccimarro. Carli trasferì addirittura la competenza. Il centro di potere Banca d'Italia si liberava dall'obbligo di concorrere con i suoi acquisti alla copertura del disavanzo e, in più, si prendeva il potere di vigilanza. Niente scandali, dico io: è normale mercato politico. In seguito, con l'euro, la Banca d'Italia ha perso sia il diritto di battere moneta sia la manovra del tasso di sconto che sempre Carli, neoministro del Tesoro preoccupato per l'avventurismo dei suoi nuovi colleghi, le aveva fatto attribuire, nonostante il parere contrario del suo pi ù stretto collaboratore, Paolo Savona, che riteneva la manovra del tasso di sconto uno strumento della politica economica in quanto incide sulla riallocazione del reddito, e come tale dovrebbe essere considerato uno strumento del governo. Ora alla Banca d'Italia è calato il lavoro. Le sono rimaste solo le funzioni di vigilanza e di tutela della concorrenza, che spesso risultano in conflitto fra loro. Anche l'Ufficio italiano cambi ha dovuto inventarsi nuove competenze, direi di intelligence, sui flussi dei capitali, assai utili al Sismi, al Sisde e alla Dia.».

E allora?
«Allora ragioniamone senza scandalizzare e scandalizzarci. Come negli anni Trenta, inizierei dalle fondamenta. Bruno Tabacci suggerisce di togliere le riserve eccedenti per conferirle al fondo ammortamenti del debito pubblico. Non è quell'eresia che dicono i "ventriloqui" di Fazio. È un tema di dibattito in tutte le cancellerie europee. Ma si rischia di mettere il carro davanti ai buoi. Prima di tutto bisogna affrontare i nodi irrisolti dell'azionariato della Banca d'Italia, che non può essere privato e irresponsabile com'è oggi, e della sua corporate governance, che non può più risolversi nel regno precostituzionale di un dominus senza scadenza».

Ha una proposta?
«Sì. In quanto istituzione di interesse pubblico, la banca ex centrale deve avere una proprietà pubblica: una Fondazione, il ministero dell'Economia, tutto va bene, purché non ci siano più ipocrisie. Questo soggetto può rilevare le quote dei partecipanti a un prezzo che tenga conto del modestissimo ritorno economico del loro investimento e degli inesistenti poteri a questo connessi. Gli esperti mi dicono che 5 miliardi di euro potrebbero essere una somma sensata per questa che potremmo considerare un'Offerta pubblica d'acquisto sui generis.

Sia detto di passata, questi quattrini farebbero comodo ad alcuni dei signori partecipanti come Intesa Bci e, ancor pi ù, Capitalia. Chi lanciasse l'offerta non dovrebbe sopportare un vero esborso: potrebbe farsi finanziare dalle banche e poi saldare il debito con una piccola parte di quello che certamente troverebbe in Banca d'Italia. Il nuovo "padrone" scoprirebbe un patrimonio immobiliare e finanziario immenso e malgestito, una zona franca sottoposta al controllo formale di sindaci che notoriamente non controllano nulla, ma non a quelli di una società di revisione e della Corte dei conti. Di più.

Scoprirebbe che, per le finalità residue della Banca d'Italia, tutto questo patrimonio è vistosamente esagerato. Ce ne sarebbe abbastanza per dotare l'azienda Banca d'Italia di tutto quello che le occorre, sia che il legislatore decida di tenere accorpate vigilanza e antitrust sia che, come io auspico e come avviene in tanti altri paesi, le attribuisca a due entit à diverse. Quello che avanza - e sarà tanto - servir à a ripagare le banche finanziatrici e a rinsanguare le casse dello Stato, l'azionista vero di Bankitalia».

 

 

cossiga berlusconi jpegpalo15 cossiga dagostinoBOSSI BERLUSCONI Cesare Romiti Luca Cordero Di Montezemolo e Diego Della Valle - Copyright PizziMassimo MucchettiANTONIO FAZIO CESARE GERONZIfazio geronzi IlTempoCAPALDOAgnelli RomitiPIERO MARANGHI ALESSANDRO PROFUMO MARIO SARCINELLI - Copyright Pizzio mc36 carlo ciampiCiampi e Guido Carli PAOLO SAVONA E SIGNORA