DAGOREPORT - ED ORA, CHE È STATO “ASSOLTO PERCHÉ IL FATTO NON SUSSISTE”, CHE SUCCEDE? SALVINI…
Stefano Stefanini per “La Stampa”
Nancy arriva a Taipei. La tensione sale, non sappiamo fino a che punto. Sappiamo che la geopolitica vince, la diplomazia perde. Ne è responsabile principalmente la Cina. Ha tuonato fuoco e fiamme contro la visita. A Washington, non tutti ne erano entusiasti.
L'idea non nasceva alla Casa Bianca. La Cina non ha cercato di dissuadere; ha minacciato. La non diplomazia di Pechino ha fatto di un'idea, se non altro infelice per tempismo, un'inesorabile sfida geopolitica. Per gli Stati Uniti la posta non è Taiwan. E' il Pacifico.
Gli americani non potevano cedere alle scoperte pressioni cinesi senza apparire in ritirata da una regione vitale per l'America, strategicamente ed economicamente. Altri – Giappone, Sud Corea, Vietnam, Filippine, India, Australia, Indonesia, Nuova Zelanda – stavano a guardare. Pur mettendo in conto una risposta cinese di intimidazione militare - vedremo quale - gli americani non potevano tirarsi indietro. Non l'hanno fatto.
Ieri sera Nancy Pelosi, speaker della Camera, terza carica degli Usa, è atterrata a Taipei. Ha un precedente, la visita del suo predecessore repubblicano Newt Gingrich nel 1997. La Cina rispose con due missili a salve nello Stretto. Fecero un po' d'onda dopo di che le acque si calmarono presto. Ma in un quarto di secolo molto è cambiato.
Sul palcoscenico ci sono tre attori: Cina, Usa e Taiwan. Dal 1972 recitano fedelmente a copione. Washington riconosce una sola Cina, quella di Pechino (One China policy), ma mantiene stretti rapporti con Taipei; Pechino afferma la propria sovranità sull'isola ma non fa niente per imporla; Taiwan gode di un'indipendenza di fatto che non vede riconosciuta se non da una manciata di Stati, pur non irrilevanti (c'è la Santa Sede) e intanto prospera economicamente, in larga misura grazie ai rapporti con la Cina continentale. Questo copione si chiama status quo.
Le due condizioni essenziali sono che non ci siano tentativi di cambiarlo con la forza da parte di Pechino e che non ci sia abbandono della "One China policy" da parte di Washington. Se l'una o l'altra o entrambe vengono meno, dal copione si passa alla commedia (o piuttosto dramma) dell'arte con tutti i rischi che comporta.
Questo è esattamente quello che sta succedendo. La visita di Nancy Pelosi è la punta dell'iceberg. L'iceberg è lo scricchiolare dello status quo. La spaccatura madre si è aperta dal momento in cui Xi Jinping ha messo in chiaro senza tante esitazioni che la riunificazione dell'isola con il resto della Cina "deve" avvenire, e non in tempi biblici, sottintendendo forse durante la sua presidenza – forse a vita ma comunque non eterna. Non ha escluso la forza.
In parallelo, il pugno di ferro su Hong Kong ha spazzato via l'illusione di una possibile convergenza pacifica. Il massimo che oggi Pechino può offrire a Taipei è una misura di liberismo economico sotto stretto controllo politico. Al che, qualsiasi taiwanese, dopo tre quarti di secolo di indipendenza di fatto e quarant'anni di democrazia, risponde "no grazie".
Come se l'intimidazione politica non bastasse, Pechino ha rincarato la dose con quella militare intensificando manovre navali e soprattutto sorvoli che violano gli spazi che Taiwan di fatto controlla (naturalmente Pechino ne afferma la propria sovranità). Abbastanza da far rabbrividire una Taiwan abituata alla pace non alla guerra e non particolarmente entusiasta dei bilanci militari. A Washington, l'effetto è stato invece di aprire un dibattito sulla "One China policy" e sulla "ambiguità strategica" che l'accompagna, con la quale gli americani non si impegnano esplicitamente alla difesa di Taiwan in caso di aggressione cinese.
Di conseguenza anche la seconda condizione su cui poggia lo status quo, il non riconoscimento di Taiwan da parte degli Stati Uniti viene messo in discussione. Non è questa la posizione dell'amministrazione Biden, ma le pressioni cinesi per la riunificazione la spingono in questa direzione. Taiwan diventa così anche una pedina della rivalità globale fra Cina e Usa.
La parola "indipendenza" non dispiace all'attuale governo di Taipei ma non a rischio di un confronto militare con la Cina.
Il terzo attore, e diretto interessato, è pertanto costretto a barcamenarsi fra rafforzamento delle capacità di deterrenza e ricerca di assicurazioni di sostegno americano in caso di aggressione. La visita di Nancy Pelosi porta con sé l'incognita della risposta di Pechino.
In questa vicenda, di cui oggi non conosciamo lo sbocco, il tragico errore di Pechino è stato di vedere nella visita l'abbandono della "One China policy". Non è questa l'intenzione di Joe Biden – l'ha detto chiaramente. Ma è un piano inclinato. Più Pechino alza i toni più spinge gli Usa nella direzione non voluta. C'è da sperare che, realizzandolo, Xi Jinping moderi le mosse nelle prossime ore e giorni.
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