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Francesco Battistini e Milena Gabanelli per il "Corriere della Sera"
Si dice spesso che i migranti possono diventare una straordinaria risorsa economica e politica. Vero. Se c’è un posto dove il concetto viene applicato alla lettera, questo è la Turchia di Recep Tayyip Erdogan, ma in tutt’altro senso.
Per lui le grandi crisi umanitarie dall’Afghanistan alla Siria, fino alla Libia, sono diventate l’occasione per incassare soldi, e lo strumento di ritorsione con il quale giocare una complessa partita strategica ed energetica.
La sua linea è chiara: dall’uso dei migranti all’influenza politico-militare, ogni mezzo è buono per diventare l’anello forte tra il mondo islamico e l’Europa.
L’ascesa di Erdogan
Come s’è arrivati a un Erdogan così determinante? Bisogna risalire al primo decennio del Duemila. Quando le tre guerre che via via scoppiano in Afghanistan (2001), in Iraq (2003) e in Siria (2011) fanno della Turchia il passaggio obbligato di milioni di rifugiati. Erdogan, l’ex sindaco d’Istanbul e leader del nuovo partito islamista che si batte per l’ingresso della Turchia nell’Ue, viene eletto premier.
Fino alle Primavere arabe del 2011, garantisce un contenimento della cosiddetta Rotta Balcanica, la via dei disperati che attraversa Bulgaria, Grecia, Macedonia, Serbia e raggiunge il cuore continentale in Ungheria e in Croazia. Per lungo tempo, sulle isole greche, non si superano mai i 10 mila sbarchi l’anno.
E gli immigrati entrano in Europa soprattutto dall’Africa, attraversando il Mediterraneo centrale. Le cose però cambiano in poco tempo per tre ragioni. La prima: la scoperta di gas davanti alle coste mediorientali. La seconda: dopo un lungo dibattito si chiudono definitivamente le porte all’ingresso della Turchia nell’Ue, a causa dell’ostilità della Germania che teme un’enorme onda di «asylanten» turchi.
La terza: la guerra in Siria ha mosso quattro milioni di rifugiati verso la Turchia, con mezzo milione di bambini nati solo negli ultimi cinque anni. Isolato dagli europei, assediato dai profughi ed escluso dalla partita energetica, Erdogan cambia obbiettivi e strategie. Vediamo quali.
Chiamiamolo «pizzo»
La Turchia oggi è uno dei Paesi al mondo col più alto numero di rifugiati, oltre 5 milioni, su una popolazione di 80. Stanco di fare da portinaio al passaggio via terra di siriani e iracheni, pakistani e afghani, dal 2016 decide di monetizzare l’emergenza – 6 miliardi e 700 milioni di euro incassati dall’Ue, più un altro mezzo miliardo in arrivo, purché i gommoni non sbarchino sulle isole greche – e di farne uno strumento di ricatto per acquisire peso internazionale.
All’assemblea generale dell’Onu, il 24 settembre 2021, mentre Kabul precipitava nel caos, il leader turco ha dichiarato: «Se gli americani mandano da noi i profughi afghani, ci diano il sostegno logistico, diplomatico e finanziario che ci serve. E coi talebani tratteremo noi». Il governo di Ankara, senza fornire dettagli, ha stimato in 40 miliardi di dollari gli aiuti necessari a gestire i dieci anni di crisi siriana.
E ora che le emergenze si sono moltiplicate, la sua politica è diventata quella di «esternalizzare» il controllo delle frontiere europee: io mi tengo i migranti che verrebbero da voi, ma in cambio voi mi pagate in denaro sonante e in aperture politiche.
L’oro sottomarino
La ritorsione sui migranti però non funziona sul tavolo della guerra per le risorse di gas in quel pezzo di mare davanti a casa. Nei fondali del Mediterraneo orientale, dal 2010, sono stati scoperti enormi giacimenti di gas naturale.
Alla corsa all’oro sottomarino partecipano l’Egitto, la Grecia, Cipro, Israele, tutti Paesi che hanno rapporti poco amichevoli con Ankara e che, d’accordo con l’Europa, stanno progettando un gasdotto per tagliare fuori gli inaffidabili turchi. Chiuso nella doppia morsa, Erdogan s’è dovuto chiedere come uscirne. La soluzione l’ha trovata guardando all’altra sponda del Mediterraneo: la Libia.
Proprio là, dove dovrebbe passare il nuovo gasdotto, e dove è possibile riproporre lo stesso schema di taglieggiamento sperimentato con la crisi siriana. Nel 2015, quando un milione e 300 mila profughi siriani si muovono dalle coste turche per entrare in Europa, Erdogan li contiene ottenendo in cambio diverse concessioni, compresa una quota di visti più facili per i suoi cittadini.
Gas, armi, e migranti
L’occasione per Erdogan si presenta nel gennaio 2020. La debolezza della nostra politica estera in Libia durante i due governi Conte, ha lasciato spazio libero, e consentito a Erdogan di sbarcare in meno di due anni, centinaia di «consiglieri militari».
Facendo sì che Ankara e Tripoli firmassero un accordo esclusivo per il controllo delle coste della Tripolitania, per la difesa reciproca e per lo sfruttamento di gas e petrolio nel Mediterraneo centrale.
Approfittando della guerra civile tra il generale Khalifa Haftar (appoggiato da russi ed egiziani) e il governo di Tripoli, sostenuto dalla comunità internazionale, la Turchia invia truppe, armi, e sposta dalla Siria in Libia i suoi miliziani mercenari, in appoggio al governo di Tripoli.
Una mossa abile: da quel momento, Erdogan può sedersi al tavolo dell’undicesimo maggior produttore di petrolio al mondo, chiedendo a Tripoli pure la gestione dell’aeroporto e del porto di Misurata per i prossimi 99 anni.
Solo un mese prima dell’intervento militare contro Haftar, Erdogan ha firmato proprio coi tripolini un accordo per lo sfruttamento delle loro risorse naturali sottomarine, 10 miliardi per la ricostruzione di strutture e infrastrutture, e nel frattempo ha iniziato a controllare i flussi in arrivo dal Sahel e dall’Africa subsahariana.
Un esempio di questo nuovo ruolo nel Mediterraneo centrale si vede subito: nel gennaio 2020 la fregata turca Gaziantep, impegnata a scortare un carico d’armi diretto a Tripoli, recupera di sua iniziativa un barcone di migranti diretto in Italia e lo riporta in Libia. È un respingimento illegale, ma sufficiente a legittimare la presenza turca nel mare «nostro».
Le minacce all’Europa
Dopo l’accordo con l’Ue sui migranti siriani, il gioco turco è evidente: le frontiere prima si chiudono, passando dal milione 300 mila profughi sulle rotte balcaniche del 2015 a una media di 20 mila nel 2018, per poi riaprirsi nel 2019 con 159 mila profughi sulle coste greche.
E quando l’Europa decide di imporre sanzioni economiche per le operazioni militari di Erdogan in Siria, o peggio ancora sui curdi, ecco la minaccia: «Se provate a chiamare invasione le nostre operazioni – dice il leader turco nel 2019 –, spalancheremo i nostri confini e vi manderemo tre milioni e mezzo di rifugiati». E le sanzioni si attenuano.
La promessa è mantenuta l’anno dopo: nel 2020 Ankara batte cassa, ma Bruxelles è lenta a rispondere, e allora la Turchia sposta 130 mila disperati sui 120 km di frontiera terrestre con la Grecia. Tempo pochi mesi e l’accordo economico con l’Ue viene rinnovato.
È un gioco facile, se sei tu a regolare i rubinetti delle migrazioni sia da Est sia da Sud e, intanto, ti prepari a controllare anche quelli di gas e petrolio. E in spregio a ogni regola: la Turchia non ha mai rispettato la clausola, contenuta nell’accordo con l’Ue, che le impone di riaccogliere un migrante sbarcato nelle isole greche per ogni migrante che viene ricollocato in Europa.
In cinque anni se n’è ripresi 2.140, contro i 15 mila sbarcati in Grecia solo nel 2020. Lo stesso vale per i soldi che l’Europa ha versato per bloccare il traffico: sono destinati al riammodernamento di dogana e frontiere, in realtà vengono usati per comprare armi e combattere la minoranza curda.
Questa situazione sta esasperando i Paesi europei più esposti sull’ultimo confine Ue con la Turchia, Grecia e Bulgaria, che sono fra i 12 governi che hanno chiesto a Bruxelles di alzare muri, da aggiungere a quelli che già ci sono.
E ora sulla rotta mediterranea si potrebbe prospettare lo stesso scenario: se l’Europa o l’Italia oseranno sollevare obiezioni sui gasdotti, o su tutte le altre partite libiche sulle quali Erdogan sta negoziando, è pronta la leva dei migranti.
Sappiamo bene che il fenomeno dei flussi migratori non lo risolvi costruendo muri, ma anche aver pensato di uscirne indenni nascondendoli sotto al tappeto del dittatore turco la dice lunga sulla incapacità strategica dell’Unione.
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